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La forza di un ideale: Articolo 9 della Costituzione giapponese e la immaginazione

GALTUNG & ANZAI Conversazione sull’Articolo 9 e sul Futuro del Giappone

Ikurô Anzai, direttore onorario del Kyoto Museum for World Peace, presso l’Università di Ritsumeikan e
Johan Galtung, Fondatore della Rete per la Pace Transcend

29 settembre 2009 - J. Galtung & I. Anzai
Fonte: Kyoto Journal vol. 72
l'articolo originale in inglese:
http://www.kyotojournal.org/kjcurrent/72/Dialog%20Anzai-Galtung.pdf

No more war!

  Questa conversazione è stata registrata al Kyoto Museum for World Peace da Robert Kowalczyk nel 2008. Una versione rivista è stata pubblicata nel N. 72/Primavera 2009 del Kyoto Journal.

Ne pubblichiamo una traduzione in italiano, grazie alla gentile concesione del periodico inglese che esce nella antica città giapponese da oltre 20 anni.

Kyoto Journal n. 72

 

I. Anzai: Il Kyoto Museum for World Peace, presso l’Università di Ritsumeikan, è stato creato nel 1992. Da allora il museo è stato visitato da 900 mila persone, molte delle quali appartenenti alle nuove generazioni, che credo sia molto importante. È stato detto che questo è il primo museo per la pace collegato ad una università e, per mio grande dispiacere, rimane ancora l’unico. Tutto questo è molto interessante se si guarda alla storia dell’università.

Ritsumeikan è stata infatti una Università altamente militarizzata dagli anni '20 agli anni '40 del Novecento. Nel 1928 ha addirittura organizzato una unità armata, chiamata “Kineitai”, creata per proteggere il Palazzo dell’Imperatore nel centro di Kyoto. Tre anni più tardi, nel 1931, accadde il cosiddetto “Incidente della Manciuria”, che rappresentò il pretesto del Giappone per iniziare la sua conquista già pianificata del nord della Cina. Ishiwara Kanji fu un partecipante molto attivo dietro le quinte di questo incidente, ma fu invitato all’Università di Ritsumeikan come professore dieci anni più tardi nel 1941. Fu nominato come primo direttore dell’Istituto di Studi sulla Difesa Nazionale dell’Università. Dal 1943 in poi, Ritsumeikan mandò al fronte circa 3000 studenti dei quali più o meno un migliaio fu ucciso. Un numero simile di studenti fu mandato nelle fabbriche militari del Giappone, per produrre munizioni, bombe e aeroplani. A quel tempo l’Università riceveva molti studenti internazionali da Taiwan e dalla penisola coreana, ma Ritsumeikan li espulse perchè non volevano diventare i soldati dell’Imperatore. Perciò l’Università di Ritsumeikan è stata un’Università particolarmente militaristica, a quel tempo, fra le altre Università. Douglas MacArthur, una volta, elencò tre università da abolire appena dopo la Seconda Guerra Mondiale: l’Università Kokushikan di Tokyo, l’Università Kogakukan della Prefettura di Mie e l’Università Ritsumeikan di Kyoto.

J. Galtung: Capisco.

I. Anzai: L’Università di Ritsumeikan fu molto cooperativa con la politica di guerra del governo, anche quando il Giappone invase i paesi dell’Asia Pacifica e in rappresaglia il popolo giapponese subì molte sofferenze. Io sto attualmente scrivendo un libro in cinque volumi sui raid aerei che le persone subirono in 47 prefetture. Circa settecentomila persone furono uccise da questi raid aerei, includendo il grande raid aereo su Tokyo del 10 Marzo 1945.

J. Galtung: Vorrei aggiungere qualcosa su questo. I raid aerei in Germania uccisero circa seicentomila persone, cosa che è stata molto ben documentata. Tutto ciò è molto importante perchè questi temi sono diventati tabù per lungo tempo. Era la storia dalla parte dei vincitori. “Abbiamo dovuto uccidere solo un po’ per vincere contro queste persone.” E ora lei viene fuori con cinque volumi sui raid aerei in Giappone, perciò sono molto felice di sentire questo.

I. Anzai: E ovviamente il popolo giapponese ha sperimentato anche i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki. Quindi, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, il popolo giapponese ha pensato che la pace fosse la cosa più importante e questo è stato il pensiero fondamentale che poi ha prodotto la nostra “costituzione di pace”. Anche se però ho sentito lei dire che la Costituzione Giapponese con il suo Articolo 9 non è una costituzione di pace “attiva” e dovrebbe diventare una costituzione che ha un approccio più positivo alla pace.

Articolo 9 della Costituzione giapponese

1) Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull'ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all'uso della forza, quale mezzo per risolvere le controversie internazionali.

2) Per conseguire l'obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno antenute forze di terra, del mare e dell'aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto.

J. Galtung: Non è una costituzione di guerra e questo è già buono. La filosofia espressa nel preambolo è che il Giappone non sarà mai più afflitto dagli orrori della guerra. Ora aggiungiamo solamente che un orrore della guerra è quello di essere sconfitti. Quindi forse quello fu uno degli argomenti della destra di quel tempo, non gli piaceva essere sconfitti. A nessuno piace essere sconfitto. Ma come lei ha sottolineato a quel tempo c’era un’attitudine più positiva verso l’Articolo 9.

I. Anzai: Sì, per il popolo giapponese, subito dopo la guerra la cosa più importante era evitare un’altra guerra.

J. Galtung: E adesso, in questo momento, gli Stati Uniti d’America stanno combattendo due delle peggiori guerre della storia umana. Due delle peggiori a causa delle armi che usano, per esempio l’uranio, per dare un seguito a Nagasaki e Hiroshima, con effetti orribili come quelli sui bambini non nati, e il Giappone li sta aiutando. Il Giappone non ha quello che io chiamo un ruolo di combattimento, non è impegnato attivamente nella guerra, ma sta aiutando un paese che sta conducendo più guerre di quasi ogni altro paese nella storia umana. Naturalmente loro la chiamano difesa, tutti la chiamano difesa, perciò non è molto originale. La questione è cosa è accaduto al Giappone nel frattempo?

Lei ha esposto nella fase iniziale, Professor Anzai, gli elementi che hanno portato all’Articolo 9 e adesso abbiamo il governo giapponese sovvertendo e pervertendo queste cose e appoggiando con solidarietà gli orrori delle guerre. Ma una domanda che mi piacerebbe fare è: cosa succederebbe al Giappone se gli Stati Uniti perdessero queste guerre e si ritirassero? È stato fatto in precedenza, il Vietnam ne è un esempio. Il Giappone ha giocato un certo ruolo anche a quel tempo, ma ora ha un ruolo molto più articolato, molto più esplicito, con le Forze di Autodifesa giapponesi muovendosi nelle acque internazionali, muovendo verso ovest, ovest, ovest. Ma non è la propria “identità” giapponese che possono difendere là. Quindi cosa succederà quando gli Stati Uniti perderanno queste guerre?

E posso porre la domanda in maniera leggermente diversa. C’è un limite a ciò che il governo giapponese può accettare? O loro pensano veramente che gli Stati Uniti continueranno a “vincere, vincere, vincere” come quando sono stati vittoriosi su un Giappone militaristico?

I. Anzai: Inoltre noi sappiamo che ci sono più di 130 basi statunitensi in questo paese. E il bilancio militare per le Forze di Autodifesa è di quasi cinquanta miliardi di dollari all’anno, attualmente il quarto o quindo del mondo.

J. Galtung: Esattamente. È enorme ed ha il tipo di armamento che è catalogato come offensivo. Cioè con un lungo raggio di azione. Quindi il Giappone gioca un ruolo internazionale e ne potrebbe giocare uno molto più grande se solo lo volesse. Altamente offensivo. L’aspetto difensivo è molto meno pronunciato. Ora, come sappiamo, l’Articolo 9 non è contro le armi, è contro l’andare in guerra. C’è spazio nell’Articolo 9 per una vera e propria autodifesa ma questa deve essere fatta con delle armi difensive. Deve essere fatta con armi locali o con le cosiddette “territoriali”, che possono essere usate in questa o quella prefettura. Ma questo non è quello che è oggi. Una forza di autodifesa significa una forza aerea e una navale che non arrivano all’autodifesa inter-territoriale e un esercito che può essere schierato solo se necessario.

I. Anzai: Queste interpretazioni sbagliate dell’Articolo 9 iniziarono nel 1947, subito dopo l’approvazione della Costituzione. Una delle prime controversie fu intorno all’interpretazione del paragrafo due, che dice “Per conseguire l’obiettivo del comma precedente non saranno mai mantenute forze di terra, di mare e dell’aria e nemmeno altri mezzi di guerra”. Ma cosa viene affermato nel “comma precedente”? Qui è dove inizia la controversia. Il paragrafo 1 dell’Articolo 9 afferma, “Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra e alla minaccia o all’uso della forza quale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Perciò questo fu interpretato dicendo che il concetto di una forza di autodifesa non era contro l’Articolo 9, perchè una simile forza non sarebbe stata coinvolta nei conflitti internazionali.

Ma nel 1947, nel periodo in cui si cercava di rivedere la Costituzione, il Primo Ministro Shigeru Yoshida rispose molto chiaramente, quando gli fu domandato riguardo all’illegalità delle forze di autodifesa, che quasi tutte le guerre venivano combattute nel nome dell’autodifesa e il concetto stesso di autodifesa era molto pericoloso e avrebbe potuto non essere riconosciuto come tale. Quindi proprio all’inizio questo tipo di discussione era già stata condotta nella Dieta Nazionale. E queste discussioni hanno costantemente continuato a deviare il significato dell’Articolo 9. Nel 1957 per esempio, il Primo Ministro Nobusuke Kishi disse che nemmeno le armi nucleari erano contro la Costituzione. E nel 1998, subito dopo un test atomico indiano, il Signor Omori, Capo dell’Ufficio Legislativo, disse che l’uso delle armi nucleari per l’autodifesa non era contro la Costituzione. Insomma i cambiamenti nelle interpretazioni del governo attaccano continuamente il significato originale e lo spirito dell’Articolo 9.

J. Galtung: È una specie di processo inflazionistico, nel senso che un Primo Ministro dà un’interpretazione che pone le basi per l’interpretazione successiva e così via. E ovviamente quello a cui puntano adesso è una nuova stesura che renderebbe possibile per il Giappone la partecipazione attiva ad una guerra, con la presenza possibilmente di un mandato delle Nazioni Unite. Ma vorrei sottolineare una cosa in questo collegamento. Rispetto all’Articolo 9, io non trovo irragionevole dire che c’è spazio per un’autodifesa, nel senso che l’arcipelago giapponese potrebbe essere equipaggiato con armi difensive con le quali però non sia possibile lanciare una guerra. L’Articolo 9 non dice niente riguardo ad altri modi di risoluzione delle controversie internazionali.

I. Anzai: Questo è verissimo.

J. Galtung: Questo ovviamente significherebbe mediazione, riconciliazione con i paesi con i quali si è stati in guerra, costruzione attiva della pace, relazioni eque ed armoniose. Se si interpreta l’Articolo 9 in maniera molto ristretta e si dice che esclude ogni tipo di esercito, allora non c’è niente nell’Articolo 9 riguardo a una difesa non militare, per esempio un tipo di difesa gandhiana. Perciò da quel punto di vista un’interpretazione limitata dell’Articolo 9 lascia il Giappone piuttosto impotente. E nemmeno questo è molto positivo.

Comunque il mio punto è questo: l’Articolo 9 può anche essere visto come un regalo all’umanità, semplicemente denunciando la guerra. Semplicemente facendo quello. E poi molte cose dovranno essere aggiunte, cose che ho menzionato. Ma a livello internazionale, se il governo giapponese avesse preso quella frase e avesse detto, “Guardate, noi abbiamo l’Articolo 9. Cerchiamo di farne il miglior uso. Diciamo Articolo 9 per tutti. Lasciateci semplicemente mobilizzare la nostra ambasciata, il nostro intero servizio diplomatico, qualunque cosa abbiamo, per dire c’è un protocollo a Tokyo, il protocollo è aperto, chi vuole firmarlo e mettere l’Articolo 9 nella propria costituzione? E possiamo esaminarlo. Possiamo rivederlo e forse possiamo migliorarlo. Ma lo spirito del no alla guerra deve rimanere.” Se fate questo il Giappone diventerà un leader mondiale. In questo momento il Giappone è un paese all’ombra degli Stati Uniti e sta andando giù insieme a loro.

Mi lasci aggiungere un piccolo punto riguardo alla guerra. La guerra è qualcosa di molto complesso e il governo giapponese sta sfruttando questo fatto. Nel Trattato di Westfalia del 24 ottobre 1648 fu definita la guerra. E un elemento molto importante nella definizione fu che questa venga dichiarata. Perciò se non si dichiara non è guerra. Il governo giapponese ha imparato questo e perciò non la dichiara. Loro non dicono che vanno alla guerra in Afganistan, loro semplicemente la fanno. Questo ha qualcosa a che fare nell’Occidente con l’enorme importanza data alla parola, non al silenzio, ma alla parola detta. Come nella Bibbia, “In principio era il Verbo”. Perciò all’inizio di una guerra c’è la parola, la dichiarazione. E il Giappone ha fatto uso di questo. Loro hanno fatto uso di tutti i trucchi possibili. Quindi penso sia importante che ci sia una chiara definizione della guerra, che è ovviamente uno sforzo deliberato di decapitare un altro. Sta succedendo proprio adesso in Irak, proprio adesso in Afganistan e, lo dico come una questione aperta, come avrebbe potuto essere mediata? Lo state facendo molto male, voi Stati Uniti, con la vostra cosiddetta “coalizione dei volenterosi”. Come farete a riconciliare in seguito?

I. Anzai: Professor Galtung, lei ci ha insegnato per decenni che ci sono molti tipi di violenza, non solo violenza diretta come la guerra e la corsa agli armamenti ma anche violenza strutturale. Ho ragione se dico che il numero di persone uccise dalla guerra ogni anno arriva forse a varie decine di migliaia o fino a centinaia di migliaia ma che il numero di morti per fame è di svariati milioni o arriverebbe a una quindicina di milioni?

J. Galtung: Anche di più. Lei può contare all’incirca centoventicinque mila morti ogni giorno per la violenza strutturale, venticinque mila per fame e cento mila per malattie che potrebbero essere facilmente prevenute e curate se il mondo non fosse guidato dai princìpi di mercato, che significa che bisogna pagare le medicine e le persone semplicemente non hanno i soldi. E molto di quel sistema è mantenuto dagli Stati Uniti d’America. Quindi arriviamo a molti milioni.

I. Anzai: Sì.

J. Galtung: E qui è dove entra la costruzione delle relazioni pacifiche. Perchè relazioni pacifiche non significa solo commercio. È il tipo di commercio che non esercita la violenza strutturale. Quel tipo di spirito ovviamente manca. Credo sia molto importante per il movimento della pace giapponese dire: noi stiamo con l’Articolo 9, che non significa che sia perfetto, piuttosto non respingiamo nessuna delle sue parti ma potremmo aggiungere qualcosa. 

I. Anzai: Uno dei miei colleghi, il Professor Masayuki Seto dell’Università di Tokyo per la Tecnologia Agricola, una volta mi chiese: se creassimo una sfera ipotetica nella quale si potessero mettere tutti gli esseri umani, che sono 6.7 miliardi di persone, quale sarebbe il diametro di questa sfera? Entrambi lo calcolammo separatamente e trovammo la stessa risposta – solo ottocentosessanta metri. Il diametro della Terra è diecimila volte più grande di quello. Quindi la Terra in sé ha la capacità di nutrire facilmente 6.7 miliardi di esseri umani. Il fatto che una persona muoia per cause innecessarie, come la malnutrizione e la fame, ogni quattro secondi non è un fenomeno naturale ma piuttosto un fenomeno strutturale e sociale.

J. Galtung: Esattamente. Mi lasci sottolineare due punti che sono molto semplici. Se vuole conoscere l’enorme ammontare delle aree incustodite e non coltivate nel mondo, guardi alla mappa della Russia e a quella degli Stati Uniti. Il mio piccolo paese, la Norvegia, con 4.6 milioni di persone, potrebbe facilmente nutrirne 12 milioni. Senza problemi. In altre parole siamo ricchi, come lei ha fatto notare. Ma oltre a questo l’altro punto fondamentale è che c’è una distribuzione iniqua. Il mondo è fatto in modo che un piccolo gruppo di persone in alto ricevono molto di più di quello che potranno mai usare o spendere o mangiare e possono entrare nella speculazione o in cose di questo genere. E poi abbiamo vaste masse, al fondo, che vivono in condizioni di miseria. Perciò stiamo contro due grandi avversità, per usare la mia terminologia: la violenza diretta e la violenza strutturale. Questo significa, viceversa, pace diretta e pace strutturale. Credo che oggi in realtà sappiamo moltissimo sul come fare. È solo una questione di volontà politica.

I. Anzai: Io sono un rappresentante del Progetto Messaggio Articolo 9, che raccoglie lettere, foto e dipinti relativi all’importanza dell’Articolo 9 e della pace. E sono stato spesso invitato a parlare sul tema dell’Articolo 9, in incontri attraverso tutto il Giappone. Ma ogni volta che parlo di fronte al pubblico ho una sensazione di disagio, perchè le persone davanti a me non hanno bisogno di ascoltare il mio discorso, perchè loro hanno lo stesso sistema di valori che ho io rispetto all’Articolo 9. Quindi è molto importante per me trasmettere la mia idea alle persone che non vengono agli incontri. Il Progetto Messaggio Articolo 9 sta ora stampando vari tipi di opuscoli che spiegano i molti aspetti dell’Articolo 9 e della pace in modo da comunicare i nostri pensieri a centinaia di migliaia di persone. Questo tipo di attività è divenuta molto importante.

J. Galtung: Vorrei fare un commento da un punto di vista sociologico. Per andare ad un incontro bisogna uscire di casa, trovare un mezzo di trasporto, cercare di arrivare in tempo e così via. Ora che tipo di persone farebbe questo? Sono le persone che hanno idee che vorrebbero fossero confermate da lei. Non sono persone che vorrebbero essere impensierite da lei. Questa forse è la sensazione di disagio che lei ha. L’ho avuta anche io. Un’alternativa all’incontro è l’internet. Ho scoperto personalmente, quando guardo ai risultati, che raggiungo molte, molte più persone. Agli incontri si possono avere commenti, domande, standing ovation e quei tipi di cose. Magari è buono per l’ego. Ma è molto più importante raggiungere persone che non sono convinte. E forse l’internet è il modo migliore di farlo.

I. Anzai: Il compito è lo stesso con i musei della pace. Le persone che vengono al museo della pace vanno bene e sono molto benvenute, ma dobbiamo trovare il modo di invitare più persone che non vogliono venire.

J. Galtung: Esattamente. E il vostro museo della pace è passato attraverso questo tipo di movimento per attrarre altre persone. Quando l’ho visitato per la prima volta nel 1992 era un museo contro la guerra, descriveva gli orrori della guerra. Adesso è molto di più un vero museo della pace. Anni fa mi fu chiesto di aiutare a progettare quello che credo sia il più grande museo della pace nel mondo, che si trova in Normandia, Francia, ed è chiamato il Memoriale di Caen. Mi fu lasciata mano libera nel progettarlo e perciò feci del mio meglio. Avevano già una sezione contro la guerra, cioè la Seconda Guerra Mondiale, e una sezione sulla Guerra Fredda e una terza sezione era per il museo della pace. Io trovai come cosa più interessante quella di lavorare sugli aspetti positivi della pace. Credo che sia molto importante per i visitatori sentire che non sono obbligati ad applaudire o rifiutare ma piuttosto che possono avere delle impressioni solamente venendo e dando un’occhiata.

I. Anzai: Sì, è vero. Nel 2005, il Kyoto Museum for World Peace fu rinnovato e andammo verso quella direzione. Preparammo delle esposizioni per mostrare non solo delle memorie di guerra ma anche quelle della violenza strutturale e i modi per risolvere possibilmente questi problemi. Organizzammo anche uno spazio per presentare le attività di dodici differenti lavori di ONG in favore della pace, che fu anch’esso molto importante. Cercammo di fare appello ai visitatori per pensare a quello che può essere fatto da loro.

J. Galtung: Facemmo qualcosa di simile in Normandia. È interessante sapere che voi avete fatto lo stesso mostrando il lavoro delle ONG. Perchè quando lo fanno i governi ci sono sempre i cosiddetti interessi nazionali. Gli interessi nazionali sono di solito politici, militari ed economici. Gli interessi economici spesso portano alla violenza strutturale e gli interessi militari e politici alla violenza diretta. I governi non sono, diciamo, i migliori “nastri trasportatori” per la pace.

Bene, torniamo all’Articolo 9, il punto focale qui. Sono già colpito dal fatto che esiste. Che è già un successo enorme. Lei sa molto più di me su questo, ma io credo che non fu scritto veramente dai giapponesi ma più dagli americani, alcuni governativi e alcuni non-governativi. Ci misero dentro molte considerazioni anche se la mia visione è che i loro sforzi non furono sufficienti. Fu poi accettato dai giapponesi. E lo sforzo di sovvertirlo iniziò immediatamente. Ora siamo qui. Professor Anzai qual’è la sua previsione? Cosa succederà adesso?

I. Anzai: Io so che ci sono settemila associazioni A9 per tutto il Giappone. Questo è molto inusuale. Abbiamo avuto tre esperienze simili nella storia del dopoguerra in Giappone. La prima fu nel 1954, quando le bombe all’idrogeno degli Stati Uniti furono testate nell’Atollo di Bikini. Subito dopo una quantità enorme di persone alzò la propria voce per il disarmo nucleare. La seconda fu negli anni ’60, durante la guerra del Vietnam. C’era un movimento contro la guerra in Vietnam molto forte qui in Giappone e quattro milioni di lavoratori del sindacato scioperarono contro la guerra.

J. Galtung: Fantastico.

I. Anzai: La terza fu alla fine degli anni ’70. La Sessione Speciale delle Nazioni Unite per il Disarmo Nucleare fu tenuta nel 1978. Il popolo giapponese realizzò una grandissima campagna per il disarmo nucleare mandando più di trenta milioni di firme all’ONU. E ora stiamo affrontando la quarta ondata nel movimento della pace, creando associazioni in favore dell’Articolo 9 per tutto il Giappone. È un specie di speranza. Ma anche se ogni associazione per l’Articolo 9 organizzasse mille persone, avremmo sette milioni di persone, che non è sufficiente per fermare l’azione del governo. Quindi dobbiamo mobilizzarci sempre di più.

J. Galtung: Io sono stato con uno di questi gruppi in Shirahama nella prefettura di Wakayama. È stato molto impressionante. Sono stato colpito dalla dedizione delle persone. Erano per la maggioranza insegnanti in pensione. Avevano molto tempo e molta conoscenza. Si conoscevano gli uni gli altri. Erano organizzati molto localmente. In altre parole andavano oltre l’Articolo 9 in un certo senso, per rafforzare la comunità locale, che è la vera natura delle persone. L’ho trovato affascinante. Parlavano delle valute locali, dell’artigianato tradizionale locale e dell’autosufficienza locale. Anche se il parlamento giapponese non ha una strategia reale o ha preso la strategia di qualcun altro, le persone hanno la loro. E le persone hanno uno spirito che giocherà un ruolo internazionale importante nei decenni a venire. Deve essere sviluppato ad un livello superiore qualitativamente e quantitativamente. Se una crisi spirituale esiste in Giappone è tutta in alto. E nella gran maggioranza di chi semplicemente non distingue fra il dentro e il fuori io trovo della confusione, si stanno domandando dove tutto questo porterà e in questa confusione sono impegnati nel consumo materiale. Perciò avrete questi gruppi attivi che cresceranno. E cosa pensa verrà fuori da questo?

I. Anzai: Credo che questo movimento debba in qualche modo essere collegato con la politica.

J. Galtung: Deve essere così. Osservo il Giappone dal 1968 e adesso per la prima volta c’è qualcosa che assomiglia a un dibattito nella Dieta Nazionale del Giappone. Voglio dire fra il Partito Democratico Liberale e il Partito Democratico. Solo desidero che il Partito Democratico abbia una strategia di pace o un obiettivo di pace. Stanno discutendo di una cosa dietro l’altra e tutte quelle questioni hanno a che fare con l’Articolo 9 in una maniera o nell’altra. Hanno a che fare con concessioni e contratti, e rifornimento di carburante per le navi della marina militare in Afghanistan e Iraq. Hanno a che fare con l’ospitare le basi, come lei ha menzionato, le 130 basi statunitensi qui in Giappone. In effetti ci sono più di 700 basi statunitensi in 130 paesi nel mondo. In parte a causa del costo di queste basi gli Stati Uniti sono in bancarotta, e più che in bancarotta pesantemente indebitati. Gli Stati Uniti dovrebbero essere messi in una prigione dei debitori per non pagare il loro debito. Certamente quella prigione non esiste e gli Stati Uniti sono grandi e nessuno vuole farlo, ma questo è il fatto. Quindi cosa verrà fuori da questo? Esiste un punto in cui avremo una svolta in Giappone? Perchè, come lei ha sottolineato, è un bene avere questi settemila gruppi ma devono essere collegati alla politica e al governo del Giappone.

I. Anzai: A luglio dello scorso anno, il popolo giapponese ha sperimentato un leggero cambio nella situazione politica, alle elezioni nazionali della Camera Alta. E credo che qualche studente giapponese ha anche iniziato a sentire che loro potrebbero cambiare la società attraverso il coinvolgimento sociale. Perciò ho qualche speranza per loro. L’Articolo 9 è chiaramente esplicito. Riguardo a questo collegamento ho una storia interessante su Ishiwara Kanji, che, come ho menzionato in precedenza, giocò un ruolo importante nell’Incidente della Manciuria e fu invitato all’Università di Ritsumeikan. Dopo l’inizio della Seconda Guerra Mondiale resistette alle pressioni di Tojo Hideki, che era il Primo Ministro e aveva dichiarato la Guerra del Pacifico, e perciò non fu processato come un criminale di guerra categoria-A alla fine della guerra. All’inizio della guerra lui insistette su “una guerra finale per la pace globale”, ma nel 1947, subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione del Giappone, iniziò a dire che la pace globale deve essere realizzata attraverso l’Articolo 9. Disse che l’Articolo 9 era piuttosto esplicito e avrebbe portato alla pace.

J. Galtung: Beh, nessun altro paese ce l’ha. Nessun altro paese ha l’Articolo 9. Fa una certa impressione. Quindi come ho detto prima è un regalo all’umanità. E questo mi ricorda che quando arrivai in Giappone per la prima volta in vita mia, nel gennaio 1968, tutti i mass media erano riempiti da persone del governo, tecnocrati e personale d’azienda e tutti avevano diplomi dell’Università di Tokyo e di quella di Kyoto. Voglio dire i mass media erano molto limitati a un concetto di élite. Oggi invece stanno rifiorendo con le ONG, i movimenti locali, con persone anziane, persone giovani e un quantità enorme di donne. È una specie di sottobosco che era nascosto in precedenza. Ora è una vegetazione così ricca che sta oscurando la tipologia di persone che erano abituate a dirigere il Giappone, e fino ad un certo punto ancora lo fanno, e che vengono messe da parte da questa ondata. Io vedo questo come un segno di ottimismo. È molto importante che queste nuove forze che stanno venendo fuori portino questo tipo di valori come fanno. Guardiamo solamente alla solidarietà con i villaggi che sono lasciati indietro nei distretti periferici in Giappone a causa della mancanza di supporto monetario e a cose di questo genere. Movimenti di questo tipo stanno venendo fuori. Per esempio ci sono trecento posti in Giappone che hanno valute locali, che stimolano l’acquisto locale per avere più circolazione nell’economia del posto. Questo è sommamente importante.

I. Anzai: Il popolo giapponese sta iniziando a realizzare che il loro governo non è sempre corretto. Per esempio rispetto ai registri delle pensioni che andarono persi lo scorso anno. Il Primo Ministro Abe disse che cinquanta milioni di registri delle pensioni stavano aleggiando nell’aria e che questi cinquanta milioni di registri sarebbero stati trattati nel giro di un anno. Quasi tutti capirono che era una menzogna perchè correggerne un numero talmente grande in un anno sarebbe stato ovviamente impossibile. Quindi le persone stanno iniziando a vedere che non va per niente bene dipendere completamente dal loro governo e si stanno adattando a questa realtà. Lei è venuto la prima volta in Giappone nel 1968 e credo che gli anni ’60 furono da una parte molto attivi, come mostrarono i grandi movimenti contro la Guerra in Vietnam, ma dall’altra fu un decennio molto pericoloso. Per esempio durante quel periodo il governo giapponese premiò Curtis LeMay, che fu il comandante statunitense che effettuò bombardamenti indiscriminati sulle città del Giappone uccidendo settecentomila persone, con l’ordine del Grand Condon, il premio più alto che gli si potesse conferire. Questo fu nient’altro che una chiara violazione allo spirito dell’Articolo 9.

J. Galtung: Quello fu qualcosa di estremo nella sottomissione agli Stati Uniti, premiare il proprio assassino. Curtis LeMay era all’inizio contro il bombardare la popolazione civile. Ma fu persuaso da Arthur Harris, un uomo inglese, che era stato dietro i bombardamenti tedeschi. Harris aveva iniziato nei primi anni ’20 bombardando la ribellione irachena contro il colonialismo inglese in Iraq, poi andò a sganciare bombe sull’Afghanistan. E persuase LeMay perchè era la sola maniera di portare avanti la guerra nello spirito della guerra, come la continuazione della politica con altri mezzi. Comunque, è molto triste, molto brutto, infinitamente triste. Ma Curtis LeMay è importante per il fatto che nel febbraio 1943 l’aviazione militare statunitense cambiò la sua dottrina basata sulle idee di Arthur Harris. La dottrina fu di concentrare i bombardamenti sui quartieri della classe lavoratrice, perchè le persone là vivevano più vicine e quindi ci sarebbero stati più morti per ogni bomba. Inoltre quelle persone lavoravano nelle industrie delle armi e infine perchè erano considerate marxiste o comuniste. Quindi quella fu più o meno la filosofia dietro al cambiamento. Attraverso una strategia concreta di bombardamenti nelle città in Giappone non si sprecano le bombe. Bombardare i distretti della classe alta è troppo dispersivo, dato che le case sono molto separate. Inoltre le persone delle classi alte sono corruttibili e possono diventare tue amiche. Si ha a che fare con forze molto brutte qui.

Ancora la mia domanda è: dov’è il punto di rottura per il governo giapponese? Io sospetto che ce ne sia uno. Adesso che stiamo arrivando alla conclusione di questa conversazione mi piacerebbe tenere su in alto una bandiera dell’Articolo 9. Il punto è che è un segnale. Da un punto di vista europeo è un segnale di un anti-Trattato di Pace di Westfalia, che in effetti aprì le porte nel sistema statale al diritto alla guerra. L’Articolo 9 dice che questo paese non ha il diritto alla guerra e rinuncia al diritto alla guerra. Rimanete al fianco di questo e fatene un faro per illuminare il mondo.

I. Anzai: Per me il coinvolgimento nel movimento per la pace iniziò nel 1960 quando entrai nell’Università di Tokyo. Quello fu l’anno del movimento per la pace contro il Trattato di Sicurezza Giappone-Stati Uniti. Fu un’esperienza molto importante per me. Capii che possiamo cambiare la società con il nostro coinvolgimento in un movimento di cittadini quando vidi come il Primo Ministro Kishi fu costretto a dimettersi. Le persone giovani in questi giorni non hanno sperimentato una cosa simile. Dobbiamo incoraggiarli in tutti gli aspetti. Nel libro “Il Giappone è in crisi?” che lei ed io scrivemmo insieme qualche anno fa, parlammo dell’importanza dell’autonomia. L’autonomia del governo giapponese sta declinando a quasi zero. Quindi adesso l’autonomia delle persone sta diventando molto importante. Vorrei incoraggiare questa autonomia a tutti i livelli dei movimenti delle persone – il livello individuale, il livello delle ONG, il livello governativo e il livello internazionale.

J. Galtung: Lei ha iniziato questa conversazione andando indietro alla storia iniziale di Ritsumeikan. Io vorrei terminare tornando indietro al lunedì 11 Ottobre 1989. La guerra fredda finì quel giorno. Cinquantamila persone si riunirono nelle strade di Leipzig. Non avevano armi. Non avevano niente a parte delle torce. Alzarono le torce in alto con il messaggio che loro non avevano armi. Erano circondate dalla polizia di stato. Stavano parlando di Gandhi e Martin Luter King e stavano discutendo per la libertà e il diritto di movimento. Il capo della polizia di Leipzig disse in una voce triste che non c’era nessun violento lì. Quella fu la fine. Le persone l’avevano causato. Un mese dopo, l’11 Novembre 1989, il Muro di Berlino fu aperto. In altre parole i movimenti delle persone contano. È importante anche la nonviolenza. Ogni atto di violenza sarà usato come un pretesto. Perciò fate crescere i movimenti importanti dal basso verso l’alto, manteneteli nonviolenti e abbiate un messaggio positivo.

I. Anzai: Allora continuiamo a mobilitarci per incoraggiare le nuove generazioni.

J. Galtung: Sì, per l’autonomia.

 

traduzione dall'inglese di Maurizio Geri

Note: Il numero del Kyoto Journal:
http://www.kyotojournal.org/kjcurrent/kjcurrent.html

il sito del Kyoto Museum for World Peace di Ritsumeikan University:
http://www.ritsumei.ac.jp/mng/er/wp-museum/index.html (in giapponese)
http://www.ritsumei.ac.jp/mng/er/wp-museum/english/index.html (in inglese)