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Germoglio n. 2 del Centro di documentazione "Semi sotto la neve"

CALPESTANDO ABOJI e UN SOGNO BELLO ED ESILARANTE

Due racconti di Makoto ODA

 

Makoto ODA

Copertina del libro originale

 

Calpestando Aboji

           e

Un sogno bello ed esilarante

  

Traduzione dal giapponese di Manuela Suriano

 

germoglio n.2

Centro di documentazione "Semi sotto la neve"  Pisa - Italia

 © Makoto Oda

Titoli originali: アボジを踏む Aboji o fumu

pubblicato per la prima volta su Gunzo , ottobre 1996

痛快でいい夢 Tsuukai de ii yume pubblicato per la prima volta su Shin-Seiraitousou , novembre 2006

 © William Wetherall per le note aggiuntive in appendice di "Calpestando Aboji"

per gentile concessione dell'autore

Edizione italiana realizzata da

Centro di documentazione "Semi sotto la neve" Via O. Gentileschi, 6/A 56123 Pisa Italia

Tel/fax +39 050-564238 E-mail: info@semisottolaneve.org

Vietata riproduzione al di fuori dell'uso personale senza un preventivo consenso

del Centro di documentazione "Semi stto la neve"

 

Makoto Oda, nato a Osaka nel 1932, è autore di numerose opere saggistiche e letterarie, nonché traduttore dei classici greci.

è noto anche come instancabile promotore degli scambi tra le società civili del mondo, dei movimenti dal basso per la pace e per i diritti umani.

Dello stesso autore, il Centro di documentazione ha pubblicato un'intervista realizzata da Brian Covert "Dentro al fumo - A colloquio con Makoto Oda: scrittore e attivista" (Germoglio n. 1)

  

Calpestando Aboji

  

"Tornerò a casa in carne e ossa", mi disse Aboji .1 All'epoca era ancora in salute. Voleva semplicemente comunicarmi la sua decisione o mi stava chiedendo di occuparmi delle formalità? Sicuramente entrambe le cose.

I morti vengono trasportati in aereo nella bara. Secondo Aboji , le compagnie aeree giapponesi non prevedevano il servizio, ma quelle coreane lo assicuravano. Alcuni compaesani suoi amici erano tornati a casa "in carne e ossa" in quel modo. La loro destinazione, come per Aboji , era l'isola di Cheju. Là le salme venivano inumate e riposavano nel cimitero degli antenati.

Aboji era venuto a Osaka in nave da Cheju più di sessanta anni fa, all'età di diciassette anni. Nell'isola non poteva mangiare perché era senza lavoro. Nelle stesse circostanze si era trovata Omoni , come lui venuta a Osaka per lavorare. Poiché era una pescatrice ama, 2 Omoni si recò a Tokushima, nello Shikoku, per pescare l'agar-agar; lì conobbe Aboji , che faceva il rematore per le barche delle pescatrici, e si sposarono. Aboji aveva diciannove anni, Omoni venti. Più vecchia di un anno, era per lui una moglie e una sorella maggiore. Cambiarono diverse volte lavoro e indirizzo e alla fine si stabilirono a Kobe, nel quartiere di Nagata, dove vissero durante e dopo la guerra, fino al 17 gennaio 1995, il giorno del grande terremoto.

Aboji e Omoni erano venuti a Osaka da Cheju con la stessa nave, anche se in periodi diversi. Ma mentre Omoni si era imbarcata sulla Kimigayo Maru ,3 Aboji asseriva di aver preso la Kundae Wan . Kundae Wan era l'equivalente coreano del giapponese Kimigayo Maru , ma Aboji non aveva nessun ricordo né diceva di avere mai avuto nessuna intenzione di prendere la Kimigayo Maru . Quanto alla Corea, per lui era l'isola di Cheju. Nei suoi ottantacinque anni di vita non era mai stato a Seul. Andando a Cheju, gli era capitato di fare scalo all'aeroporto di Pusan. "Perché non prendi l'autobus e vai a fare un giro in centro?" gli dicevo per spronarlo, ma non dava alcun segno di volersi spingere fin là. Se ne stava tutto il tempo a fumare dentro l'aeroporto. "Oda-kun, e cosa ci vado a fare in città?", mi diceva.

Il legame tra Aboji e me, Oda-kun, come soleva chiamarmi, è nato quando ho sposato la sua figlia minore, una decina di anni fa o poco più. Dire che tra di noi "è nato un legame" suonerà strano, ma questa rimane la mia sensazione. Forse anche lui pensava la stessa cosa: "Legato a un giapponese alla mia età! La vita è davvero strana".

Aboji aveva sette figlie. Solo figlie. Una di loro era "rimpatriata" nel Nord Corea, ma le altre sei avevano messo su famiglia e vivevano in Giappone: a Kobe, Osaka, Tokyo, Nishinomiya. Aveva già otto nipoti e tre o quattro pronipoti, includendo anche quelli al Nord. Per quanto riguarda l'affiliazione politica di queste sei figlie, tre di loro erano "nordcoreane residenti in Giappone", le altre tre "sudcoreane residenti in Giappone", come Aboji e Omoni .4 La questione è complicata, ma non è mia intenzione mettermi ora a discutere di appartenenze politiche. La spartizione tra Nord e Sud è insensata e irrazionale di per sé, è impossibile darne una spiegazione logica. E discutere di qualcosa di inspiegabile può anche farci perdere il senno. La frase che un giorno Aboji mi disse commenta da sola l'insensatezza della situazione: "Oda-kun, io ero coreano ancora prima che il signor Kim e il signor Park nascessero". Si riferiva naturalmente a Kim Il Song del Nord e a Park Chung-Hee del Sud, che all'epoca erano ancora vivi.

 Tra i sette generi di Aboji , io sono l'unico giapponese. E tra i suoi nipoti, mia figlia, che ora fa la quinta elementare, è l'unica giapponese, cioè in possesso della "cittadinanza giapponese".

Io sono un uomo il cui aspetto non ispira affatto fiducia. Per peggiorare le cose, la prima volta che incontrai Aboji e Omoni indossavo quella che ritenevo la mia giacca migliore, con delle toppe di pelle ai gomiti. Volevo essere elegante e raffinato, ma agli occhi di Omoni apparivo solo come uno yakuja giapponese pronto a raggirare e sfruttare la bella figlia alla prima occasione. Per yakuja naturalmente voleva dire yakuza : sentendomi definire a quel modo, persi tutta la mia prestanza e mi vidi piuttosto come il personaggio di una farsa. Aboji , da parte sua, pensò che non avevo neanche i soldi per comprare una giacca nuova e che cercavo di mascherare i gomiti lisi con delle toppe. La prima cosa che mi disse fu: "Ce li hai i soldi? Se non ce li hai, te li do io".

Questa splendida frase rappresentava tutto l'orgoglio e la vanità di uomo. Aboji viveva dei suoi pochi risparmi in una porzione di un vecchio casamento scampato ai danni della guerra. Una bomba incendiaria aveva perforato il tetto cadendo al primo piano, ma per fortuna Omoni era riuscita a spegnere il fuoco agitando disperatamente un battifuoco. Aboji aveva fatto tanti lavori nella sua vita: il rematore per le pescatrici, lo sterratore, il manovale, l'operaio, l'ambulante, il venditore al mercato nero; dopo la guerra era riuscito a fare buoni affari fabbricando stivali di gomma, come tutti a Nagata a quell'epoca. Faceva gli stivali con una macchina presa in "leasing" da una fabbrica per poi caricarseli lui stesso in spalla e andare a venderli nelle regioni del nord, spingendosi fino a Hachinohe e Aomori. Gli stivali di gomma erano infatti indispensabili per il lavoro nei campi. "Oda-kun, i miei stivali vendevano bene, volavano via che era una bellezza", mi diceva spesso. Tuttavia, i guadagni non durarono a lungo. Un suo connazionale che era in affari con lui scappò con tutti i soldi, una somma che oggi equivarrebbe a centinaia di milioni di yen. Da allora in poi, vuoi perché cominciava a prendere la vita con filosofia, vuoi perché tutti i suoi sforzi per arricchirsi erano falliti, iniziò una vita in cui non faceva altro che fumare e bere in silenzio, all'interno di una famiglia matriarcale amministrata da Omoni e dalle figlie. All'inizio usava del tabacco trinciato che fumava con una lunga pipa coreana, dopo un po' passò alle cartine e alla fine alle sigarette giapponesi, sudcoreane, oppure nordcoreane, cinesi e occidentali che gli compravo durante i miei viaggi. Lui le fumava lentamente e con grande cura, fino quasi a bruciarsi le dite. A guardarlo, sembrava proprio assaporarle. Come alcol beveva makkolli, insamju, sake, whisky. Li gustava altrettanto lentamente e con la stessa grande cura.

Ma devo dire che c'erano altre due cose che davano colore alla sua vita. Una era il pachinko . Ogni giorno faceva uno o due giri nei locali della zona; a volte vinceva e a volte perdeva. L'altra erano le donne. Un tempo le ragazze lo chiamavano Gary Cooper. All'epoca in cui era nato il legame tra me e Aboji , purtroppo era già invecchiato, aveva il viso pesantemente ricoperto di rughe e macchie, ma restavano tracce del suo aspetto di un tempo. Aboji aveva inoltre tre qualità che piacciono alle donne: era gentile, abile e scrupoloso. Usciva di primo mattino senza mangiare niente dicendo che aveva del lavoro da fare. Omoni lo seguiva, pensando che era impossibile che un vecchio come lui dovesse lavorare così presto, e lo scopriva a fare colazione in qualche altra casa in compagnia di una raffinata vecchietta giapponese. Se anche alla sua età succedevano cose di questo tipo, non era strano immaginare che all'epoca in cui faceva affari d'oro fabbricando e vendendo stivali di gomma, dovunque questo Gary Cooper coreano andasse, ad Hachinohe o Aomori, ci fosse una donna a fare colazione con lui. Eppure Omoni , che dai lunghi anni da pescatrice ama era sempre vissuta in maniera indipendente, se ne infischiava degli uomini scansafatiche, incluso Aboji . Con la stessa fermezza poteva dire comprensiva: "Aboji è un bell'uomo, si sa, per questo tutte gli gironzolano intorno". Poi aggiungeva la sua battuta suprema: "Ci siamo fatti vecchi. Dobbiamo andare d'accordo come due amici". Erano proprio la sua comprensione e gentilezza, nonostante le liti che quotidianamente attaccava con Aboji , che le avevano permesso di vivere con lui così a lungo.

Se Omoni era una donna che aveva vissuto la vita ardua della pescatrice, Aboji era un uomo che per molti anni aveva lavorato altrettanto duramente come sterratore o altro. Si capiva subito vedendo il suo corpo di roccia. Io me ne resi conto per la prima volta alle terme, quando ci immergemmo insieme in una vasca di pietra. Il suo corpo angoloso si confondeva con le pareti di roccia nuda della vasca. Per meglio dire, era come se una roccia assottigliata si ergesse davanti a me, erosa e consumata dal tempo. Mia figlia, che all'epoca aveva quattro anni, a un certo punto venne da noi nella zona riservata agli uomini. Ai suoi occhi quell'Aboji di roccia doveva sembrare qualcosa non di questo mondo. Scappò subito nella parte delle donne gridando: "Ho visto un fantasma". La madre si sorprese, ma Omoni , ignorando il grido disperato della nipote, continuò a nuotare abilmente e con piacere tra le rocce delle terme. Il suo amore per il fantasma roccioso risaliva all'epoca in cui lei era stata pescatrice, molto tempo prima.

Aboji non sapeva leggere, e neanche Omoni . Non solo non conoscevano gli ideogrammi e l'alfabeto sillabico giapponese, ma non potevano leggere nemmeno l'hangul, l'alfabeto coreano. Anche questo, così come il corpo da fantasma roccioso di Aboji , testimoniava della vita dura che i due avevano vissuto. Chiaramente non erano mai andati a scuola o niente di simile. Tuttavia, grazie a quella vita faticosa avevano acquisito una saggezza ineguagliabile e una grande perspicacia. Ho già accennato al giudizio brillante di Aboji sulla spartizione della Corea tra Nord e Sud. Omoni , da parte sua, faceva spesso commenti sagaci. "Quell'uomo è cattivo", diceva di colpo guardando la televisione, mentre sullo schermo c'era il primo piano di Nakasone.5 Oppure, di fronte al pomposo funerale dell'imperatore Sh?wa: "E allora? Si fa lo stesso anche al mio villaggio". E così dicendo rivelava una cognizione storica che faceva riflettere sull'origine della casa imperiale.

Aboji parlava un giapponese singolare. Anche Omoni , ma nel suo caso mescolava giapponese e coreano, o meglio il dialetto dell'isola di Cheju, creando una sua propria lingua che si poteva solo chiamare "omonese". Per dire "tavolo e sedia" usava il coreano o piuttosto il dialetto dell'isola per la parola "tavolo" e diceva "sedia" in giapponese. Quando si rivolgeva a me, pensava di parlare giapponese, ma la metà delle sue parole erano in dialetto. Al contrario, quando parlava con altri coreani, pensava di usare il coreano, ma gran parte delle sue parole erano in giapponese. La somiglianza tra la struttura grammaticale delle due lingue le aveva probabilmente permesso di creare l'omonese. Il caso di Aboji era stato diverso. "I primi tempi, quando sono arrivato, il marito di mia sorella mi ha trovato un lavoro in una fabbrica di appretto per kimono. Oda-kun, io andavo in giro a vendere. Mi davano il dieci per cento su quello che vendevo. Qualche volta potevo fare pure uno yen al giorno, ma di solito campa cavallo. Ha, ha, ha! Poi ho lavorato in una fabbrica di olio. Oda-kun, una faticaccia, sali e scendi tre piani con centotrenta chili sul groppone. Da allora le gambe mi si sono fatte fiacche". Questo era il suo modo di parlare. Era un giapponese che aveva appreso e fatto suo nei luoghi di duro lavoro fisico, che aveva imparato con il corpo. Ma quello che più mi colpiva era il suo modo di intercalare continuamente "Oda-kun", come soleva chiamarmi, e di riferirsi a se stesso usando il pronome "boku",6 poco comune tra gli operai.

Ascoltarlo mi procurava una certa nostalgia perché anche mio padre, scomparso molto tempo fa, era solito usare "boku" e chiamare gli altri aggiungendo "kun" al loro nome.7 Gli stranieri tendono a conservare nel tempo i vari elementi che trovano in un Paese al momento del loro arrivo. Sicuramente sia "boku" che "kun" erano diffusi negli anni Trenta, all'epoca in cui Aboji era arrivato in Giappone a bordo della Kundae Wan ; tra i coreani più anziani residenti in Giappone ci sono alcuni che continuano a usarli tuttora. Ma nel caso di Aboji la sua combinazione di espressioni intellettuali, quali "boku" e "kun", e il giapponese appreso negli ambienti operai era di grande impatto. Me ne resi particolarmente conto quando mi raccontò di un episodio capitatogli durante la guerra: era stato arrestato dalla polizia e sottoposto a ogni forma di maltrattamento perché fabbricava e vendeva caramelle, che in quel periodo erano vietate. La sua poca loquacità e la fisionomia da Gary Cooper forse lo avevano compromesso, così il semplice venditore di caramelle di contrabbando era stato preso per un militante del movimento indipendentistico, rinchiuso tre mesi in prigione e per di più torturato per diversi giorni di seguito. "Oda-kun, mi picchiavano, e come picchiavano. Mi battevano sulle ginocchia con un bastone, mi facevano cadere, tu non sai quante ne ho dovute passare. Ancora adesso mi fa male qui", diceva accarezzandosi le ginocchia. Non parlava in maniera patetica, era proprio il tono distaccato a dare forza alle sue parole.

A me piacevano particolarmente i "boku" e "Oda-kun" di Aboji perché creavano tra di noi un'intimità amicale, un po' come quella che c'era tra lui e Omoni , che lo considerava un amico per la vita. La nostra era un'intimità che non derivava dalla relazione suocero-genero; era un legame basato su rapporti umani più liberi e paritari, un sentimento che nasceva naturalmente. In realtà, neanche il termine amico era adeguato. Sono solito chiamare la sua figlia minore, che ho sposato, "compagna di vita", ma in un altro senso consideravo anche Aboji un mio "compagno di vita". È così che a un certo punto cominciai a pensare di lui.

Programmai un viaggio: ripercorrere, con un "compagno di vita" ora invecchiato, le regioni al nord che lui aveva girato come venditore di stivali di gomma. Un giorno gli dissi all'improvviso: "Aboji , che ne dici di andare a Hachinohe?". Il viaggio in realtà poteva cominciare da qualsiasi punto, ma il nome di Hachinohe fu il primo che mi venne in mente. Con mio grande stupore rispose immediatamente: "Oda-kun, è una buona idea. Ci avevo pensato anch'io, ci vorrei tornare ancora una volta prima di morire. Dopo la mia morte non potrei più andarci".

Mi sorprese anche la sua ultima battuta. Sul momento pensai fosse un'affermazione scontata, ma non lo era. Nell'isola di Cheju i morti vengono inumati. Dopo aver deposto la bara in una fossa profonda, i parenti vi gettano sopra della terra che poi tutti insieme calpestano affinché l'anima del defunto non scappi via. Aboji si riferiva a questo. La sua anima non sarebbe potuta uscire da una tomba ricoperta di terra indurita. Non avrebbe potuto volare fino a Hachinohe. Mentre riflettevo perplesso sulle sue parole, Aboji mi disse: "Tornerò a casa in carne e ossa". Dopodiché aggiunse solo una parola: "Oda-kun".

Ma il viaggio a Hachinohe non fu mai realizzato. Mentre continuavo a rimandare senza riuscire a trovarne il tempo, Aboji si ammalò di cancro ai polmoni. Era già in stato avanzato. Sei mesi di vita. La prognosi fatta dal medico del vicino ospedale dove era stato ricoverato fu curiosamente precisa.

Non è tutto. Aboji ottenne dal medico il permesso di tornare a casa per un giorno. L'indomani, dopo aver passato la notte con Omoni nella casa di Nagata dove aveva vissuto per così tanti anni, alle 5.46 del mattino la terra tuonò e tremò: in un istante, il terremoto tolse la vita a più di cinquemila persone e distrusse centinaia di migliaia di abitazioni. La casa di Aboji non crollò, ma scossa dalle fondamenta subì danni irreparabili. Quando un vicino, preoccupato per la loro incolumità, dopo un po' di tempo entrò nella loro casa, trovò i due anziani coniugi che si guardavano con occhi esterrefatti, seduti l'uno di fronte all'altra.

Anch'io ero in ansia, assieme alla loro figlia, la mia "compagna di vita", e a mia figlia, la loro nipote. Ma colpiti a nostra volta dal terremoto a Nishinomiya, non potevamo fare niente nonostante sapessimo che Nagata era stata completamente distrutta e che il fuoco divampava. Intanto, il marito di un'altra figlia che viveva a Kobe accorse da loro in moto, li trasse in salvo e li accompagnò nella vicina scuola elementare adibita a centro di accoglienza, dove poco dopo entrò lui stesso con la sua famiglia. All'ospedale dove Aboji era stato ricoverato non avevano l'intenzione di essere malevoli, ma con tutti i morti e feriti che affluivano dalle zone colpite non potevano occuparsi di un malato di cancro terminale come lui. Gli fu rifiutato il rientro e per forza di cose dovette restare nel centro di accoglienza.

Si può facilmente immaginare come per Aboji , fin lì rimasto in vita grazie alle flebo e alle inalazioni di ossigeno, fosse penoso sentirsi come un "cittadino abbandonato"* 8 sul pavimento di cemento del centro di accoglienza, dove se tutto andava bene si poteva sperare in un pezzo di pane e una fetta di banana. Il vecchio, che nei suoi lunghi anni non si era mai lamentato e che raramente si era scoraggiato, arrivò a dire: "Ho fatto lo sterratore, lo scaricatore, il facchino al mercato nero, sono stato anche in prigione. Ma la vita che facciamo qui è terribile". Lo disse all'improvviso, pare, dopo diversi giorni di silenzio dall'arrivo al centro, senza alzare la voce indignato. Il suo tono era quello pacato di sempre, ma le sue parole avevano una grande forza, come mi raccontò in seguito la figlia che gli era accanto. Se io fossi stato lì, forse avrebbe aggiunto: "Oda-kun, quello che questo Paese sta facendo secondo me è inammissibile", con tutto il peso del suo passato di coreano che fino alla fine non aveva ricevuto nessun beneficio dal Giappone. Il dominio giapponese sulla Corea era cominciato l'anno in cui era nata Omoni . Aboji era nato l'anno dopo.

Non potendo fare altro, le figlie e i rispettivi mariti "misero in salvo" dal centro di accoglienza Aboji e Omoni . Impiegarono otto ore di macchina per accompagnarli a Osaka, da una delle figlie, per poi mandarli a Cheju, a casa del loro figlio adottivo. Volevano che i due passassero dei momenti sereni, anche se brevi. All'aeroporto di Osaka si temette il peggio quando Aboji sembrò soffocare per del catarro che gli bloccava la gola, ma alla fine poté davvero "tornare a casa in carne e ossa", come aveva detto. Tuttavia, non visse a lungo. Per qualche tempo sembrò stare meglio, ma cinque giorni dopo le figlie in Giappone ricevettero l'annuncio della sua morte. Accadde tutto in meno di un mese dal terremoto.

Andammo a Cheju per il funerale, io e la mia famiglia, in tre. Per la figlia "rimpatriata" al Nord era fuori discussione, ma anche alcune delle sei figlie che vivevano in Giappone non poterono partecipare al funerale del padre a causa dell'irrazionale questione di affiliazione politica. La figlia al Nord poté perlomeno parlare per telefono con le altre sorelle in Giappone. A questa conversazione partecipò anche il figlio adottivo,* 9 venuto da Cheju per occuparsi delle formalità dopo la morte di Aboji . Per lui fu la prima volta che parlò con la sorella al Nord. Inaspettatamente il loro divenne un "dialogo tra Nord e Sud". Tutti piansero.

La salma lasciò la casa del figlio adottivo la mattina presto, quando era ancora buio. Tutti i familiari indossavano vestiti di lino, me compreso. Noi uomini portavamo delle ghette e una specie di eboshi * 10 in testa, le donne un cerchietto simile alla corona di spine di Cristo e il figlio, che guidava la cerimonia funebre, aveva una cintura di paglia legata sul vestito di lino. Nel momento in cui stavamo per uscire con la bara in spalla, si sentì di colpo una frase in giapponese tra il pianto addolorato delle donne: "Aboji ", gridava la figlia maggiore tra i singhiozzi, "Aboji , perché ci hai lasciati?".

Il cimitero di Aboji si trovava nella pianura che si estende ai piedi del famoso monte Halla dell'isola di Cheju, dove il forte e gelido vento di febbraio soffiava dall'alto delle montagne. Era un terreno incolto, con i mucchi di terra e i recinti di pietra delle tombe sparsi dovunque. I suoi antenati erano seppelliti in quelle tombe e in una di esse entrò anche Aboji , che era "tornato a casa in carne e ossa".

Ci fu la cerimonia. Forse perché si trattava della parte conclusiva o semplicemente perché esulava dal rito, dal tempio non venne nessun monaco. Furono letti i sutra, ma l'elemento fondamentale della cerimonia era il pianto addolorato delle donne. Appena le lacrime si esaurivano, si mettevano a parlare e a ridere allegre. Poi cominciavano di nuovo a piangere. Le loro grida risuonavano pesantemente e impetuosamente nella pianura. Pensai al nobe no okuri * 11 , il rito di sepoltura del Giappone dei tempi antichi. Lì c'era tutta la sincerità e la solennità dei riti primordiali che qualunque popolo e qualunque cultura ha avuto prima che si imponessero i riti buddisti o di altre religioni, e prima che questi fossero introdotti nella lontana regione chiamata Giappone. Anche nella cerimonia che accompagnava Aboji c'era, senza ombra di dubbio, la stessa sincerità e solennità del nobe no okuri dell'epoca del Many? * 12 . Pensai anche al mondo di Omero. Nell'Iliade e nell'Odissea, gli eroi piangevano e si dolevano senza misura della morte di parenti e amici, e quando non avevano più lacrime mangiavano e bevevano con la stessa smoderatezza. Tutto questo era anche nel nobe no okuri di Aboji . All'entrata del cimitero, assieme al feretro era stata portata una grande pentola per un banchetto all'aperto. Quando tutto fu terminato, i presenti, incluse le eroine piangenti, bevvero e mangiarono senza misura. E anch'io, ovviamente, bevvi e mangiai con loro.

La bara fu trasportata dagli uomini della famiglia abbigliati con vestiti di lino, me compreso. La deponemmo nel fondo di una grande fossa scavata dentro un nuovo recinto di pietre. Prima i familiari più stretti, poi gli altri parenti e a seguire tutti i presenti cominciarono a buttare della terra nella fossa e quando fu riempita fino al livello del recinto di pietre vi salimmo sopra tutti insieme. Salii anch'io, salì anche la figlia minore di Aboji , la mia "compagna di vita", salì anche sua nipote, mia figlia, che aveva vissuto l'esperienza del terremoto alla terza elementare. Assieme agli uomini, salirono le eroine piangenti. Salì anche la figlia maggiore di Aboji , che sul far del mattino aveva gridato in giapponese tra i singhiozzi. Tutti insieme calpestavamo e indurivamo la terra per impedire che l'anima di Aboji uscisse dal fondo della tomba e vagasse senza meta. Questo era il nostro compito.

Iniziammo a pestare la terra senza che nessuno dicesse niente. Continuavo a calpestare, e con me la mia "compagna di vita". Anche mia figlia calpestava assiduamente, e ogni tanto saltava ricadendo a terra con tutto il peso del suo corpo. "Calpesta più forte" dissi rivolto a lei, ma anche a me stesso. Calpestai forte. Mia figlia saltò ancora più in alto. "Oda-kun, non calpestare così forte, mi fai male. Ormai non vado più da nessuna parte. La mia casa a Nagata è distrutta, non c'è più", mi disse Aboji da sotto i miei piedi.

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*Appendice - Note per l'edizione inglese di William Wetherall

8 L'espressione "cittadino abbandonato" (kimin ) si riferisce alle persone dimenticate dal governo, includendo immigrati, rifugiati e altre minoranze. Oda implicitamente sostiene che i coreani in Giappone sono stati ignorati e trascurati dal Giappone, nonché dalle due Coree, nei riassestamenti del dopoguerra, e continuano a essere segregati in un Paese noncurante del loro benessere.

9 Aboji aveva adottato un figlio, probabilmente un nipote e probabilmente il figlio di un fratello, come erede nominale per assicurarsi la continuazione del lignaggio maschile, conservare il patrimonio intatto e praticare i riti funebri richiesti e altri rituali ancestrali.

10 Eboshi era un tipo di copricapo indossato da nobili ufficiali di corte e guerrieri nel Giappone premoderno, usato oggigiorno nelle cerimonie in costume d'epoca.

11 "Accompagnamento ai campi" (nobe no okuri ) è un riferimento classico del porgere l'ultimo omaggio al funerale di qualcuno. Oggi come in passato, crematori e cimiteri sorgono spesso ai margini degli insediamenti, solitamente in un campo arido, e la bara viene trasportata da casa del defunto al crematorio o al cimitero. Qui nobe (campo) allude anche a questi luoghi dell'eterno riposo. Frase derivate dall'espressione a volte compaiono sugli annunci funebri dei giornali anche oggigiorno.

12 L'epoca del Many? si riferisce ai secoli risalenti al Many?sh? , un'antologia di poesie antiche compilata nell'VIII secolo. È il periodo della storia e preistoria giapponese ritenuto più fortemente influenzato dalle migrazioni in Giappone dei "nomadi a cavallo" e di altre popolazioni, e dalla diffusione della loro cultura dall'Asia centrale attraverso la penisola coreana.

 

 

Un sogno bello ed esilarante

 

Se devo sognare, voglio che il mio sia un bel sogno. Immagino che tutti la penseranno allo stesso modo, ma io ho già settantaquattro anni e non mi resta molto da vivere. Se devo sognare, non mi basta un sogno piacevole, lo voglio bello ed esilarante. Ho deciso allora di sognare me stesso, Oda, trasformato nel Segretario generale Kim Jong Il. E che cosa faccio una volta nei suoi panni?

Per prima cosa invito giornalisti, reporter televisivi, cameraman e paparazzi del mondo intero, tutti quelli che spinti dall'interesse professionale o allettati dalla possibilità di uno scoop redditizio possano scrivere e fotografare ciò che c'è o non c'è nel mio Paese. Convoco poi una conferenza stampa nella Piazza del Popolo, nella Grande Biblioteca Popolare o in qualsiasi altro luogo che riesca a contenere una gran folla. Chi parla? Io naturalmente, il Segretario generale Oda-Kim.

E di che cosa parlo?

Dichiaro che rinuncerò agli esperimenti nucleari e che smantellerò ed eliminerò le armi eventualmente approntate. Anzi, comunico che l'ho già fatto. Dico inoltre che interromperò ogni attività che abbia a che fare con il nucleare, comprese le centrali. Anzi, anche questo l'ho già fatto. Percorro con lo sguardo la sala piena di giornalisti di tutto il mondo e aggiungo: "Immagino che le mie parole non vi bastino. E allora, provare per credere: vi accompagnerò sul posto. Fuori ci aspettano numerosi autobus e Mercedes-Benz di cui, come direste voi, ho fatto finora largamente incetta. L'autobus è gratuito, ma a quelli che vogliono usare la Mercedes chiederò il rimborso della benzina. Come sapete, il mio Paese non ha petrolio e deve comprarlo dall'estero".

Inizia così il viaggio di ispezione sul campo. A questo punto io, Segretario generale Oda-Kim, mi ricordo di mio padre, Kim Il Sung, il cui forte erano le "supervisioni in loco" tenute durante le sue spedizioni. Tuttavia, mi trovo ora nel bel mezzo di un viaggio verso le montagne, alla testa di una carovana di autobus e Mercedes: non è questo il momento di perdersi dietro ai ricordi. Ma dove stiamo andando? Qual è la nostra meta?

Dico: "Ci stiamo dirigendo verso i luoghi che voi, assieme ai vostri amici militari o dei servizi segreti, con boria avete indicato come siti di esperimenti nucleari. Visiteremo, senza nessuna esclusione, tutti i posti della lista che vi avevo chiesto di preparare".

Quando finalmente arriviamo a destinazione, che si tratti di caverne sul fianco della montagna o grotte sotterranee, risultano tutte completamente vuote. I presenti non hanno neanche il tempo di stupirsi. Io, Segretario generale Oda-Kim, comunico: "Ora vi porterò nelle basi segrete che né voi né i vostri amici militari o dei servizi segreti avete scovato".

La fila di autobus e Mercedes riprende ad avanzare tra le montagne. Arriviamo a quella che sembra essere una base sotterranea immensa, ma al suo interno non c'è niente. "Cosa c'era qui?" mi chiedono. Rispondo alla loro domanda ovvia: "Questo era il deposito di testate nucleari che il mio Paese costruiva in segreto. Ma tranquillizzatevi, le abbiamo già smantellate ed eliminate".

Tra i giornalisti giapponesi presenti ce n'è uno particolarmente furbo che raccoglie da terra una fotografia ricoperta di fango raffigurante me e mio padre e se la mette velocemente in tasca. Sicuramente la userà per scrivere un articolo il cui titolo a caratteri cubitali reciterà: "Gli idoli caduti". O magari racconterà che, scoperto con la foto dei due grandi leader ricoperta di fango, ha rischiato di essere rinchiuso in prigione.

Io, Segretario generale Oda-Kim, dico ad alta voce in modo da essere udito da tutti: "Nel mio Paese è finita l'epoca del ridicolo culto della personalità. Di ritorno a Pyongyang, se avrete tempo, andate a vedere la statua in bronzo di mio padre. All'altezza delle spalle, a destra e a sinistra, ho fatto sistemare una scaletta e uno scivolo. I bambini giocano allegramente facendo a gara a chi scivola più veloce.

Mi rivolgo poi a un giornalista americano: "Ho sentito dire che anche da voi, a Washington, c'è una grande statua di bronzo raffigurante un eroe della patria, Jefferson o Lincoln, mi sembra. Perché non ci mettete anche voi degli scivoli? Non vuoi provare a scriverlo sul tuo giornale libero?".

Sulla via del ritorno, la nostra carovana di autobus e Mercedes fa una sosta in un grande campo. Qua e là ci sono bambini che giocano a pallone. Tutti guardano per un po' e un giornalista venuto dall'Italia, la patria del calcio, mi chiede mentre gli passo accanto: "Che cos'è questo posto?". Gli rispondo: "Qui sorgeva una centrale nucleare. Il mio Paese ha smesso di affidarsi a cose così obsolete, per questo l'abbiamo distrutta e lasciato lo spazio libero".

Chiamo un cameraman della televisione tedesca e gli dico: "Voi avete smantellato l'impianto di riprocessamento nucleare di Wackersdorf, l'avete trasformato in un parco dei divertimenti, giusto? La vostra è stata una scelta epocale, perciò abbiamo pensato di costruire un grande luna-park anche qui. Spero che ci aiuterete". Ma il cameraman rimane intontito. "Sei giovane, non conosci neanche la storia del tuo proprio Paese" gli dico, e aggiungo rivolto a un paparazzo giapponese: "Ho intenzione di invitare anche gli abitanti del villaggio di Rokkasho,1 voglio parlare con loro". Di rimando il giovane, anche lui con l'aria intontita, mi chiede: "In che zona della Corea si trova?".

Un giornalista cinese interviene polemico: "Segretario generale, come farete con le fonti energetiche?". Al che gli rispondo: "Avremo centrali eoliche, solari, geotermiche, delle maree... Ricorreremo solo alla produzione di energia pulita. Inviteremo a dare prova del proprio talento i migliori specialisti mondiali in materia. Lasciamo a voi a Pechino le Olimpiadi sportive, roba ormai sorpassata. Noi a Pyongyang terremo le Olimpiadi della tecnologia ecologica! A proposito, sono presenti giornalisti danesi? Il vostro Paese è di gran lunga il più avanzato nel settore. Vi chiedo di restare con noi in veste di consulenti tecnici per queste nostre Olimpiadi ecologiche".

Tornati a Pyongyang, tengo un'altra grande conferenza stampa.

"Credo che tutti voi ora abbiate capito che il mio Paese ha rinunciato agli esperimenti, alle armi e alle centrali nucleari. Abbiamo anche interrotto la produzione e la sperimentazione dei missili. L'enorme quantità di denaro che finora abbiamo speso per queste attività folli sarà devoluta al miglioramento del livello di vita dei nostri cittadini e allo sviluppo dei servizi di assistenza sociale. In questo modo non ci saranno più i bambini affamati di cui avete dato notizia con esultanza. E se non dovessero sparire del tutto, non vuole forse dire che la colpa è della struttura distorta del nostro mondo attuale? Vi chiedo allora di promuovere una campagna sui vostri mezzi di comunicazione liberi, o presunti tali, per discuterne come un problema mondiale."

Percorro con lo sguardo l'intera platea e continuo.

"Come Paese che ha eliminato di propria iniziativa sia il nucleare che i missili, proponiamo ai vostri rispettivi Stati di rinunciare una buona volta agli esperimenti e alla detenzione di armi nucleari, compresi i missili usati per trasportarle e sganciarle sulle altre Nazioni. E ai Paesi che vivono sotto "l'ombrello nucleare" delle grandi potenze suggerisco di provare a vivere più liberamente, piuttosto che continuare a ricevere protezione a prezzo della propria indipendenza diventando un autentico Stato vassallo. La cosa assurda è che tutti i Paesi, a cominciare da quelli che hanno sempre fatto esperimenti nucleari a piacimento e che sono strapieni di armi e missili, hanno fatto un gran baccano per quei pochi missili che noi abbiamo lanciato come test. Hanno detto che è una follia, che siamo pazzi, hanno invocato sanzioni. Se noi abbiamo perso il senno, cosa dire dei vostri Paesi? Non sono impazziti anche loro? Per rinsavire non dovreste applicare sanzioni a voi stessi? Perché non arrivate a pensare queste cose? Perché non ne discutete sui vostri mezzi di comunicazione liberi e orgogliosi del proprio buon senso? Non riesco proprio a capire. Se dite che i Paesi poveri non hanno il diritto di fare esperimenti e di possedere né missili né nucleare, allora come la mettiamo con l'India e il Pakistan? Se anche questi due Paesi provassero a rinunciare alle armi nucleari e usassero i soldi per cose più importanti? Il problema, certo, non è solo dell'India e del Pakistan. Giornalisti americani, si dice che nel vostro Paese, che è il più ricco al mondo, ci sono tanti che fanno una vita di stenti. Perché non diminuite anche solo di poco le armi nucleari e non aiutate un minimo queste persone? Non so dagli altri, ma da parte nostra non avrete più nessuna minaccia. A proposito..."

Mi viene in mente che sono presenti anche giornalisti, critici televisivi e paparazzi giapponesi e mi rivolgo a loro: "Pare che il vostro nuovo Primo Ministro abbia guadagnato popolarità grazie allo scalpore creato dai nostri missili. C'è stato addirittura qualcuno così infervorato da proporre di dotarvi di armamenti nucleari.2 Ma come conquisterà il favore del pubblico ora che noi abbiamo rinunciato ai missili e al nucleare? Ci sono diverse cose che non mi convincono del vostro Paese, una per esempio è questa: dite che vi sentite minacciati dai nostri missili e dal nostro nucleare, ma pensate che noi non ci sentiamo a nostra volta minacciati dall'ombrello nucleare sotto cui siete e che credete vi protegga? Pensate che non abbiamo motivo o diritto di sentirci anche noi in pericolo? Voglio chiarire anche un'altra cosa. Voi mi definite un "erede" e sostenete che nel mio Paese prevale una politica ereditaria, ma rispedisco al mittente queste affermazioni. Anche il vostro ex Primo Ministro era un erede, come è un erede di terza generazione quello attuale. E ancora, il Ministro degli esteri e quasi tutti gli altri politici sono eredi. A proposito, anche il capo dell'ombrello nucleare che regna sopra di voi è un presidente ereditario di seconda generazione".

A questo punto si leva una voce: "E cosa ci dice dei diritti umani in questo Paese?".

Altri gli fanno subito eco e per qualche istante c'è schiamazzo. Ma io, Segretario generale Oda-Kim, senza scompormi e ad alta voce annuncio: "Signori, riprendiamo autobus e Mercedes, si riparte".

"Dove ci porta ancora?"

Alla loro domanda inquieta rispondo solo: "State a vedere e presto capirete".

Conduco la carovana di autobus e Mercedes attraverso un'altra zona montagnosa, in un sito dove sorgono tanti miseri edifici dall'aspetto tetro. Riecheggia il frastuono dei presenti: "Che cos'è questo posto? Sembra un campo di concentramento!".

Rivolto verso di loro dico: "Esatto, questo era un campo di concentramento". Si alzano voci esterrefatte.

"Qui venivano rinchiusi i criminali politici e anche i semplici fuggiaschi."

"Davvero?" l'atmosfera si agita. "Sì - annuisco - ma ora non c'è più nessuno". E aggiungo: "Li ho liberati".

Tutti rimangono di stucco o così sembra, ma un giornalista francese, da buon europeo sempre scettico verso tutte le cose, chiede con tono intenzionalmente ironico: "In che senso li ha liberati? Li ha spediti in paradiso?".

"Li ho rimandati a casa, nelle loro città o nei loro villaggi. A quelli che volevano lasciare il Paese ho dato il permesso di partire, ma questo non dipende solo da noi, la negoziazione con gli altri Paesi coinvolti richiede tempo. Intanto, visto che ora da noi c'è molta più libertà che altrove e la vita si va normalizzando, cresce rapidamente il numero delle persone che decidono di restare, nonostante abbiano già ottenuto il permesso di ingresso in altri Paesi. Siccome ci sarà sicuramente qualcuno tra voi che non crederà a quello che dico, vi consegno la lista completa delle persone liberate. Troverete riportati anche gli indirizzi, andate di persona a raccogliere informazioni. Chiedete anche delle terribili cose successe in passato e scrivetene pure: sono sicuramente vere. Non ho intenzione di nascondere le atrocità commesse dal mio Paese: le riconosco e ho già chiesto scusa. Per quanto mi sarà possibile, darò un indennizzo a loro e alle famiglie che hanno perso i propri cari. Però il mio Paese è povero, il nostro bilancio è limitato. L'unica cosa che posso fare per ovviare alla mancanza di fondi è vendervi alla metà del prezzo di mercato tutti i liquori, i profumi e i sigari che ho abbondantemente accumulato, e che tra l'altro sono ora sotto embargo grazie al putiferio che avete scatenato. Il magazzino è già pieno di merce, quando torniamo a Pyongyang fate molti acquisti! Però non potrete usare le banche per via del blocco finanziario attuato dai vostri Paesi. Vi prego di pagare con i contanti che avete a disposizione. Ma senza usare banconote false."

Detto questo, chiamo un giornalista americano, uno cinese e uno russo e innanzitutto dico all'americano: "Fino a quando il tuo Paese continuerà a usare il centro di detenzione di Guantanamo? Perché il tuo giornale libero e democratico non insiste più energicamente per la chiusura di un posto simile che viola i diritti umani?".

Poi dico al giornalista cinese: "Fino a quando il tuo Paese continuerà a detenere i prigionieri politici? Quando la smetterà di sbattere in carcere quelli che denunciano la corruzione?".

E al giornalista russo: "Uno Stato che impedisce la pubblicazione di libri che denunciano i massacri o criticano il sistema e che arriva perfino a ucciderne l'autore può davvero dirsi liberato dall'oppressione del socialismo? Imparate dal mio Paese, dove ora c'è libertà di espressione più che in ogni altro posto al mondo".

Appena smetto di parlare, un giornalista giapponese lì accanto, che ascoltava le mie parole continuando a scattare foto ai miseri e tetri edifici del campo di concentramento, mi chiede scaltramente: "Ma perché non avete distrutto questo edificio? Perché l'avete lasciato intatto? Avete intenzione di trasformarlo in un museo e di guadagnarci sopra?".

È proprio vero che i giapponesi sono intelligenti, hanno fiuto per gli affari, penso ammirato.

"Qui farò rinchiudere i responsabili dei sequestri di persona."

La mia risposta lo coglie sicuramente alla sprovvista: "I responsabili dei sequestri?" controbatte ad alta voce.

"Esatto, i criminali che hanno rapito i vostri cittadini innocenti. Li arresteremo tutti, indagheremo su di loro e li porteremo qui."3

Il giornalista giapponese, sbalordito dalle mie parole, rimane in silenzio per qualche istante, poi replica, percorrendo con lo sguardo l'area del grande campo di concentramento: "Ma Segretario generale, questo posto non è troppo grande? O i responsabili dei sequestri sono così tanti?".

"La metà degli edifici è riservata ai rapitori giapponesi. Come anche tu saprai, i giapponesi in passato hanno rapito tanti uomini coreani per mandarli a lavorare nelle miniere di carbone; hanno rapito anche tante ragazze per farne prostitute per le truppe.4 Qui dovranno vivere tutti quelli che hanno compiuto azioni di questo tipo. Avrò pieno rispetto dei diritti umani, non si verificheranno episodi come a Guantanamo o in qualche prigione irakena. Farò in modo che i criminali giapponesi e coreani si assumano la responsabilità di un reato inammissibile quale è il rapimento di persone e passino qui il resto della loro vita nel pentimento."

"Però, Segretario generale, cosa ne è stato delle vittime?" chiede precipitoso il giornalista, come se si fosse ricordato di colpo di qualcosa che stava per dimenticare.

"Parli delle vittime giapponesi?" gli chiedo di rimando. "Certo", ribatte con lo stesso fare agitato.

"Li ho già rimandati a casa in nave. Tuttavia, a causa del blocco marittimo, tutte le imbarcazioni in partenza da qui vengono ispezionate dalla Marina americana e dalle Forze di Autodifesa Giapponesi, ragione per cui viaggiano con molto ritardo. C'è anche la possibilità che la loro nave venga rimandata indietro. Così mi è stato annunciato poco fa, e la cosa mi preoccupa."

Il giornalista giapponese, forse in difficoltà su cosa controbattere, tace per qualche istante, ma poco dopo sembra trovare la risposta appropriata. "Non è stato forse lei a ordinare il rapimento dei giapponesi? Non dovrebbe entrare lei stesso in questo campo di concentramento e passare il resto della sua vita a pentirsi?" dice arrogante e con tono irato. Gli rispondo con calma: "Un capo non si assume mai nessuna responsabilità. Se lo facessi, il Paese crollerebbe. Questo, in realtà, l'ho imparato proprio dal Giappone. Il vostro ex Imperatore non solo non si è preso nessuna responsabilità per la guerra, ma viene anche venerato come simbolo di pace. Allo stesso modo, i criminali di guerra sono adorati nel santuario di Yasukuni come divinità,5 con la giustificazione che le accuse erano invenzioni da parte degli Alleati. È questa la tradizione giapponese? Prendi per esempio quel capo della compagnia ferroviaria che ha causato una grande sciagura o quel supremo responsabile della gestione del denaro pubblico, accusato di essersi arricchito grazie alla sua posizione: entrambi sono rimasti in carica sostenendo che il miglior modo di assumersi le responsabilità è continuare la propria attività. Con vivo apprezzamento per questo irresponsabile senso di responsabilità dei giapponesi, continuerò il mio lavoro di Segretario generale".

A questo punto del sogno mi sveglio. Nonostante l'irresponsabile senso di responsabilità dell'ultima parte sia difficile da accettare, mi sento come rinfrancato perché in un mondo in cui si susseguono solo incubi, il mio è stato un sogno bello ed esilarante. Se si avverasse, il mondo sarebbe un po' migliore. Senza ombra di dubbio.

 

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1 Aboji è il termine coreano per indicare il proprio padre, mentre Omoni si riferisce alla propria madre.

2 Ama : letteralmente "donna del mare", indica le donne che praticavano la pesca di molluschi e alghe in apnea.

3 Kimigayo ("Il Regno dell'Imperatore") è il titolo dell'inno nazionale giapponese; Maru è il suffisso usato per designare il nome delle navi.

4 In seguito alla divisione della Corea tra Nord e Sud, i coreani residenti in Giappone dovettero scegliere tra la cittadinanza nordcoreana e quella sudcoreana.

5 Potente uomo politico del Partito Liberaldemocratico, ha ricoperto la carica di Primo Ministro dal 1982 al 1987.

6 In giapponese esistono modi diversi di indicare uno stesso pronome personale soggetto. Nel caso della prima persona singolare "io", "boku" è l'espressione educata usata dagli uomini.

7 "Kun" è il suffisso onorifico che esprime il rispetto verso i coetanei e i più giovani, oppure verso i propri pari e gli inferiori.

1 Località nella prefettura di Aomori, al nord del Giappone, sede di un grande impianto di riprocessamento del plutonio.

2 In base ai tre principi antinucleari adottati con una risoluzione parlamentare nel 1971, il Giappone rinuncia al possesso, alla produzione e all'introduzione di armi nucleari sul proprio territorio.

3 Tra gli anni '70 e '80, secondo le stime del governo giapponese, 17 cittadini sono stati rapiti in Giappone per ordine del governo di Pyongyang. Il motivo fondamentale sembra essere stato quello della raccolta di informazioni di vario genere sul Giappone. Alcuni rapiti sono potuti tornare alle loro case solo di recente, mentre continuano le difficili trattative tra i due governi per la liberazione degli altri.

4 Il trasferimento coatto in Giappone di coreani costretti ai lavori forzati fu praticato sistematicamente nel periodo compreso tra il 1937 e il 1945, vale a dire dalla seconda guerra sino-giapponese alla guerra del Pacifico. Nello stesso periodo molte giovani donne provenienti dalle colonie asiatiche, soprattutto cinesi e coreane, vennero schiavizzate per soddisfare i bisogni sessuali dei soldati, eufemisticamente chiamate "donne di conforto".

5 Santuario shintoista a Tokyo dove sono onorati i militari giapponesi morti in guerra. Negli anni '60 tra di essi sono stati inseriti anche i criminali di guerra condannati e giustiziati alla fine della seconda guerra mondiale, scelta che ha scatenato numerose opposizioni sia in Giappone che nei paesi asiatici un tempo occupati. Nonostante le polemiche, i criminali sono tuttora onorati nel santuario che è diventato una sorta di simbolo del militarismo giapponese.

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