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10 ottobre 2010 GIORNATA MONDIALE CONTRO LA PENA DI MORTE III

LA PENA di MORTE in GIAPPONE: TESTIMONIANZE

Tre voci di condannati nel braccio della morte, una di chi li difende e un'altra di un familiare della vittima di un omicidio
11 ottobre 2010
Fonte: 命の灯を消さないで ― 死刑囚からあなたへ 105人の死刑確定者へのアンケートに応えた魂の叫び 死刑廃止国際条約の批准を求めるフォーラム90偏(インパクト出版会、2009年); 安田好弘『「生きる」という権利 麻原彰晃主任弁護士の手記 (講談社、2005年); 原田正治『弟を殺した彼と、僕』(ポプラ社、2004年)

Inochi no tomoshibi o kesanaide  

3 TESTIMONIANZE TRATTE DA

NON SPEGNETE IL LUME DELLA VITA

voci delle anime dei condannati nel braccio della morte

77 risposte al questionario redatto dal Forum90 nell'estate 2008, Tokyo, Impact Ed. 2009



 

1. Shōjirō NISHIMOTO

Nato il 22 ottobre 1976

Imputato per la serie di omicidi avvenuti nelle Province di Aichi e Nagano tra il 13 gennaio e il 7 settembre 2004

Condannato alla pena di morte il 17 maggio 2006 dal Tribunale distrettuale di Nagano presieduto dal giudice Yasuyuki Tsuchiya

Condanna resa definitiva l’11 gennaio 2007 in seguito al ritiro dell’appello contro la sentenza di primo grado

Giustiziato il 29 gennaio 2009 presso il carcere di Tokyo all’età di 32 anni



Il valore della vita

 


La maggior parte del popolo giapponese è favorevole al mantenimento della pena di morte. Come risposta a questa tendenza, oggigiorno molti più giudici emettono sentenze di morte rispetto al passato.

Penso che questo sia dovuto al fatto che la società nel suo complesso rivendica un inasprimento delle pene nei confronti dei criminali.

Negli ultimi anni sono aumentati i casi di omicidio in famiglia: ci sono sempre più uccisioni di genitori, figli, mogli e mariti causate dall’odio diffuso tra le mura domestiche che dovrebbero assicurare, invece, affetto e aiuto reciproco.

D’altra parte non sembrano diminuire i suicidi, che anzi sono diventati un problema della società contemporanea. Ma c’è un punto in comune tra tutti questi casi: la nostra società sta perdendo la consapevolezza del valore della vita.

Il legame tra individuo e società si sta assottigliando un po’ alla volta, mentre va aumentando la tendenza all’isolamento. Per esempio, la gente non mostra più riserve di fronte all’omicidio legalizzato, ovvero alla pena di morte, non si fa scrupoli a sostenerla se c’è una ragione precisa; inoltre ci sono sempre più persone pronte a uccidere familiari e parenti o a sfogare lo stress e le delusioni facendo del male agli altri; allo stesso tempo non accenna a diminuire il facile ricorso al suicidio.

Quello che mi preoccupa sono i bambini. Crescendo, da chi impareranno quanto sia preziosa la vita e quanto sia importante la premura verso gli altri?

Una persona che non riconosce non solo il valore della propria vita, ma neanche di quella degli altri, come può veramente spiegare ai figli che la vita è un bene prezioso?

Quando penso che oggigiorno la maggioranza del popolo giapponese è favorevole al mantenimento della pena di morte, non posso fare a meno di sentire una degenerazione nella nostra società. Finché continuerà a esserci la pena di morte, il valore che i cittadini attribuiscono alla vita sarà danneggiato e non aumenteranno di certo le persone in grado di capire la sofferenza e il dolore umano.

Anche i responsabili di delitti gravi, se in passato avessero imparato a capire a sufficienza il dolore degli esseri umani e il valore della vita, penso che non si sarebbero macchiati di crimini tragici come fare del male a qualcuno o togliergli la vita.

Una società in cui sarà possibile imparare a rispettare il bene prezioso della vita e a essere premurosi verso gli altri farà da deterrente e da prevenzione del crimine.

Nel 2004 io ho commesso quattro rapine con omicidio nelle Province di Aichi e Nagano, togliendo la vita a quattro persone.

Ora vivo nel carcere di Tokyo da condannato a morte. Riflettendo sui crimini che ho commesso, ho capito veramente che togliere la vita a qualcuno non è ammissibile, per nessuna ragione.

Ho imparato a riconoscere il valore della vita e mi sono reso conto che all’epoca in cui ho commesso i miei crimini, al contrario, io disprezzavo la vita.

Spero che si potrà costruire una società in cui ogni singolo cittadino torni a riflettere attentamente sul valore della vita e sia capace di trasmettere veramente ai propri discendenti che la vita è un bene preziosissimo.

Questo mi sembra molto importante anche per evitare che gli stessi crimini tragici siano ripetuti.



Espiazione



Quando penso a come pagare per i miei crimini nei confronti delle vittime a cui ho tolto la vita, arrivo sempre alla conclusione che “non posso fare niente”.

Dal momento che le vittime sono morte, non posso né riportarle in vita né fare direttamente nient’altro per loro.

Ma se me ne sto senza fare niente con la giustificazione che tanto “non posso fare niente”, le vittime non riposeranno in pace e io finirò per evitare di affrontare i miei crimini limitandomi a scappare.

Riflettendo su possibili modi di espiare, sono arrivato alla conclusione che devo comunque fare qualcosa, qualunque cosa, che vada nella direzione dell’espiazione.

Innanzitutto parlare dei delitti che ho commesso è per me un primo passo, e per questo finora l’ho fatto in diverse occasioni.

Riconoscere i miei crimini e svelare la verità dei fatti è un atto dovuto nei confronti delle vittime, delle loro famiglie e della società in generale.

Come secondo passo, ho cominciato a incontrare una guida spirituale e ho imparato a pregare per le anime delle vittime leggendo o ricopiando i sutra.

Tutto questo è molto importante e credo che abbia senso se si pratica ogni giorno con assiduità.

Inoltre, da quando la condanna capitale è diventata definitiva, ho iniziato a lavorare.

All’epoca in cui ho commesso i miei crimini, non ci provavo nemmeno a lavorare seriamente e vivevo continuando a rubare. Ma in carcere ho cambiato atteggiamento, ho deciso di lavorare con impegno e mettere da parte un indennizzo per le vittime, anche se esiguo.

E poi, se penso che le persone a cui ho tolto la vita erano tutti anziani che fino ad allora avevano lavorato onestamente, sento che anch’io devo lavorare come loro fino al giorno della mia morte e capire quanto sia importante il lavoro. Per questo, dopo la sentenza definitiva, ho fatto subito domanda per ottenere un lavoro in carcere.

E continuo a svolgerlo tuttora. Lavorando, ho imparato ad assaporare di più il cibo che ricevo ogni giorno, e la giusta stanchezza data da una giornata di lavoro mi fa dormire meglio la notte. Gli esseri umani sono creature che hanno bisogno di lavorare, mangiare e dormire. Quando questi tre bisogni sono appagati, possiamo renderci veramente conto di cosa significa essere al mondo.

E infatti, da quando lavoro sento di essere davvero vivo e capisco quanto sia importante lavorare.

In passato non ci avevo mai pensato, ma ora ne sono sinceramente convinto.

Per quanto riguarda l’espiazione, secondo me in carcere è possibile espiare i propri crimini fino a un certo punto. E per i condannati a morte le possibilità di espiazione sono ancora più ridotte per via della restrizione dei contatti con il mondo esterno. Ho riflettuto su varie possibilità ma non sono riuscito a trovare nessuna buona soluzione.

Tra i condannati ci sono quelli che dicono: “Pagherò con la morte”, e anch’io sono uno di loro.

Ma non credo che con la pena di morte si risolva tutto, è solo uno dei diversi modi di espiare.

La cosa che più desidero adesso è che anche noi condannati a morte possiamo aiutare chi ne ha bisogno donando i nostri organi.

Dato che in Giappone esiste la pena di morte, da condannato dovrò affrontare anch’io l’esecuzione in un prossimo futuro.

Ma pensando alla morte mi dico: Finirà tutto con la mia esecuzione?

Se un condannato potesse donare i propri organi a una persona che ne ha bisogno, non farebbe certo tornare in vita le vittime, ma perlomeno potrebbe aiutare a salvare la vita di un altro essere umano, potrebbe prolungargli la vita anche se solo di poco.

In questo modo, penso che anche per le vittime stesse la propria morte sarà meno vana.

Tra la gente, ci saranno sicuramente voci contrarie alla donazione di organi da parte dei condannati. Per creare un sistema che permetta di donare gli organi forse bisognerà cambiare il modo in cui avvengono le esecuzioni, può anche darsi che i condannati verranno a sapere in anticipo la data dell’esecuzione. Per tutte queste ragioni non è un argomento facile, per quanto grande sia il mio desiderio, però se potessimo veramente donare gli organi subito dopo l’esecuzione, anche noi condannati contribuiremmo a salvare la vita di altre persone.

Per non sprecare inutilmente quella che è una vita umana, spero di tutto cuore che ci venga permesso di donare gli organi. E mi auguro che in questo modo aumenti, anche se solo in minima parte, la consapevolezza della gente sul nostro sforzo di espiare i crimini commessi.

Proprio perché un condannato non può espiare vivendo, spero che si permetta, alle persone che lo desiderano, di accettare i nostri organi senza alcun intralcio.

Vorrei che la mia vita, o per meglio dire i miei organi allungassero anche solo di un giorno la vita di qualcun altro. (31 agosto 2008)



Aggiunta



Ho chiesto che il carcere di Tokyo si occupi delle procedure dopo l’esecuzione.

Immagino che le mie ceneri saranno sepolte in una tomba per i “senza famiglia”, e questo è un mio grande desiderio. Anche la mia famiglia è d’accordo.

Poi vorrei dire una cosa: io sono contro la pena di morte, ma più che sperare nella sua abolizione, desidero ardentemente una società in cui la gente arrivi a dare la giusta importanza al valore della vita in molti sensi.

Se le persone daranno maggiore importanza alla vita umana, la pena di morte sarà eliminata come conseguenza naturale, anche senza un’apposita campagna.

Non bisogna insistere solo sulla pena di morte. Spero che ogni cittadino focalizzi l’impegno e l’attività sociale per aumentare la consapevolezza del valore della vita.

Vi sono molto grato per avermi dato l’occasione di esprimermi e vi ringrazio dal profondo del cuore. (3 settembre 2008)



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2. CONDANNATO B che vuole restare anonimo



Attualmente in Giappone i sondaggi rivelano ogni volta un numero maggiore di persone che sostengono la pena di morte rispetto a chi vuole abolirla. È una cosa naturale se si pensa che i giornalisti giapponesi, di fronte a un delitto atroce, trattano gli indiziati e gli imputati come criminali feroci anche se non c’è stata ancora nessuna confessione. Accettano per vere le dichiarazioni unilaterali degli inquirenti, non ascoltano le spiegazioni degli indiziati e prima ancora che inizi il processo gli attaccano addosso il marchio di criminale feroce. Nei confronti degli indiziati c’è solo un grande coro che, alimentando il sentimento di vendetta delle famiglie delle vittime, urla: “Uccideteli! Impiccateli subito senza fare storie!”. Sembra proprio che i media vogliano spingere l’opinione pubblica verso il linciaggio.

L'accanimento dei media sui crimini atroci renderà più facili le esecuzioni capitali. Questo perché per il Ministero della Giustizia lo spazio dedicato dalla stampa riflette “l'opinione pubblica che sostiene la pena di morte”. Ma quelli che dalle celle individuali vengono trascinati verso il patibolo, solo perché le autorità e i media ritengono “l'occasione buona per l'esecuzione”, sono persone che hanno trascorso anni, decine di anni di carcere nel rimorso e nel pentimento dopo aver riconosciuto la gravità del delitto commesso.

Per quanto si continui a impiccare persone che passano le loro giornate a pentirsi di fronte alle vittime e alle loro famiglie, non si arriverà a nessuna soluzione. L’idea che la pena di morte in Giappone faccia da deterrente contro i crimini atroci è una sciocchezza pensata da gente che non ha capito l’intima natura dell’essere umano.

Una persona che ha commesso quello che chiamiamo un crimine atroce o che sta per fare del male a qualcuno non agisce basandosi su un calcolo, non pensa: “Fin qui avrò un tot di anni di prigione, ma se esagero mi aspetta la pena di morte, quindi meglio fermarsi a questo punto”. La maggior parte degli omicidi ha come causa fondamentale un disagio mentale. Anche se in tribunale viene definito come “atto premeditato”, fattori alla base come la povertà, la paura, la disperazione o l’ansia di non trovare un posto nella società hanno spinto queste persone al crimine. Si può anche dire che in quell’istante soffrivano tutti mentalmente. Poi segue l’arresto, il processo... Si ha il tempo di riflettere e allora per la prima volta si aprono gli occhi: “Ma che stupido sono stato!”. E da quel momento si trascorrono i giorni a ripensare e a pentirsi di fronte alla gravità del crimine commesso.



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3. Hideki OGATA


Nato il 20 luglio 1977

Imputato per il sequestro e l’uccisione di quattro persone a Kumagaya il 18 agosto 2003

Condannato a morte il 26 aprile 2007 dal Tribunale distrettuale di Saitama presieduto dal giudice Yoshinobu Iida

Condanna resa definitiva il 18 luglio 2007 in seguito al ritiro dell’appello contro la sentenza di primo grado

Giustiziato il 28 luglio 2010 presso il carcere di Tokyo all'età di 33 anni



[…] Giustiziare un condannato che è veramente pentito dal profondo del cuore significa davvero l’espiazione del suo crimine? Io penso piuttosto che solo vivendo con il peso del rimorso si possa espiare nel vero senso della parola.

I giapponesi considerano una forma di virtù non pensare e non parlare male dei morti. Quando qualcuno si suicida dopo aver causato un problema o commesso un crimine, le persone comuni lo considerano un atto di responsabilità, le persone che vivono nell’illegalità un modo di sistemare la faccenda.

Non posso negare del tutto che sia così, dato che c’è chi riesce veramente a sistemare la faccenda in questo modo, ma secondo me sono di più i casi in cui chi si suicida semplicemente fugge da qualcosa di terribile.

Mi sembra normale che le vittime e i familiari vogliano uccidere con le proprie mani il responsabile. Ora non siamo più in contatto, ma anch’io ho genitori, una sorella maggiore e due figlie avute dalla mia ex moglie. Se la mia famiglia venisse ammazzata, neppure io perdonerei il responsabile, sarebbe naturale pensare di volerlo uccidere.

Ma in questo modo diventa tutto identico al mondo in cui sono vissuto, dove si ripaga con la stessa moneta. Perché ai cittadini è vietato uccidere per qualsiasi ragione mentre al potere dello Stato è permesso l’omicidio chiamato pena di morte? In diversi luoghi del mondo lo Stato si è macchiato di massacri, ma che differenza c’è con la pena di morte che abbiamo in Giappone? Come la pena di morte si fonda sulla legge giapponese, così i massacri compiuti in un dato Paese non sono stati nient’altro che una pena di morte eseguita in base alla legge (ai potenti) di quel luogo. […]

Secondo me, l’esecuzione della condanna dà al massimo un po’ di soddisfazione ai familiari delle vittime, ma non cambia niente né significa un’espiazione.

Dal mio personale punto di vista, la morte porta sollievo e quindi non solo non diventa un’espiazione ma è un semplice scappare dalle proprie responsabilità. Da parte di chi è pronto ad affrontare la morte, la pena capitale non è né senso di responsabilità, né espiazione né tantomeno un castigo: è solo una fuga da una vita insopportabile. Per questo motivo ho ritirato l’appello presentato dal mio avvocato contro la sentenza di primo grado.

Ho accettato la morte e come controparte ho smesso di pentirmi, di pensare alle vittime, alle loro famiglie e alla mia stessa famiglia.

Penserete che ho una bella faccia tosta, ma dire che devo espiare con la morte equivale a dire che non ho nessun bisogno di pentirmi. Le persone, proprio perché hanno un futuro, si pentono dei propri errori e fanno in modo di non ripeterli più. Per i condannati senza futuro il pentimento non ha nessun significato. […]



Poscritto



Ultimamente le esecuzioni sono aumentate e voglio dire la mia opinione su questo.

Le esecuzioni dovrebbero essere compiute personalmente dal procuratore e dal giudice che hanno rispettivamente chiesto ed emesso la condanna, nonché dal Ministro della Giustizia (NdT: che ha firmato l’ordine di esecuzione). Solo così si assumeranno le loro responsabilità.

Inoltre chiedo che durante e dopo l’esecuzione non venga svolta nessuna funzione religiosa se questo va contro la volontà del condannato. Io detesto la religione, penso che le preghiere non siano per i morti ma servano solo a placare gli scrupoli di coscienza dei vivi. Durante e dopo la mia esecuzione desidero che non ci sia nessun rito religioso.



traduzione di Manuela Suriano

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Ikiru toiu kenri  TESTIMONIANZA DI UN DIFENSORE DEI CONDANNATI A MORTE

tratto da

Yoshihiro YASUDA, "Ikiru" to iu kenri

(IL DIRITTO CHE SI CHIAMA "VIVERE")

Tokyo, Kodansha, 2005

 



Attraverso i vari casi di processo penale di cui mi sono occupato, si è venuta delineando un'idea molto chiara nella mia mente: la maggior parte delle persone che in qualche modo vengono coinvolte in atti criminali appartiene a una categoria di “persone deboli”. Invece le “persone forti” sono esposte al rischio in misura decisamente minore.

Quando dico “persone forti” mi riferisco a persone dotate di molte capacità e che, disponendo di amici su cui poter contare e di conoscenti a cui poter chiedere un consiglio, riescono a risolvere i problemi prima che la situazione precipiti.

Le persone che chiamo “deboli” sono, invece, l’esatto contrario delle prime.

Come avvocato ho avuto molte occasioni sia di incontrare “persone deboli” sia di assisterle. Perché nutro una empatia incondizionata verso le “persone deboli”. Non si tratta di compassione, sarebbe più preciso descriverla con la parola “propensione”. Insomma, non posso fare a meno di parteggiare per loro.

Perché? Non saprei dirlo nemmeno io di preciso.

Ma ogni volta che vedo qualcuno arrestato come sospettato per un caso molto grave, vengo preso da una costernazione e mi dico: “Ah! Non potrà mai più vedere il mondo di fuori”. In quell'istante nasce dentro di me una forte empatia verso chi viene portato via dagli agenti.[...]



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Ototo o koroshita kare to, boku

 

TESTIMONIANZA DI UN FAMILIARE DELLE VITTIME

tratto da

Masaharu HARADA, Ototo o koroshita kare to, boku

(IO E COLUI CHE HA UCCISO MIO FRATELLO)

Tokyo, Popurasha, 2004

Lettere


Se ricordo bene, era poco prima che la corte distrettuale di Nagoya pronunciasse la sentenza di condanna a morte del signor Hasegawa, mandante dell'omicidio di mio fratellino, che cominciai a ricevere da lui numerose lettere, scritte con una certa insistenza, o se volete, diligenza.

In passato - quattro mesi dopo il loro arresto – avevo ricevuto una lettera da ciascuno dei tre assassini di mio fratello. Probabilmente, furono scritte dietro sollecitazione dei loro avvocati. Dai due complici del signor Hasegawa non ne ricevetti altre. Neanche Hasegawa mi scrisse più durante il processo di primo grado. In quel periodo ero completamente in preda alla rabbia e al rancore, e a ogni udienza lo fissavo con una tale insistenza che forse non ebbe più il coraggio di scrivermi.

Aprii la prima lettera che ricevetti da lui perché mi sentivo ansioso pensando al suo contenuto. Ma ci chiedeva soltanto scusa, quindi, dopo averla letta velocemente, ebbe solol’effetto di aumentare la mia rabbia anziché di attenuarla. Dopodiché tutte le buste che provenivano da lui le cestinavo direttamente senza aprirle. Non sopportavo nemmeno di leggere il suo nome. “Con che faccia osa scrivermi?” pensavo.

[…]

Ma un giorno - era in un periodo in cui la mia vita, dopo vari sbandamenti e vicissitudini, stava un po' riacquisendo la serenità di una volta - decisi di aprire una di quelle lettere spinto da una piccola curiosità. C'era scritto: “Chiedo scusa di ciò che ha causato la mia stupidità”. Le sue parole non mi toccarono, ma stranamente nemmeno suscitarono quel desiderio spontaneo di ucciderlo con le mie mani che mi assaliva in tribunale ai primi tempi. E nonostante il mio disperato bisogno di dimenticare l'accaduto che sentivo all'epoca, ora, accorgendomi che ci stavo riuscendo davvero, mi allarmai. “Non devo dimenticare l'odio per colui che ha fatto soffrire così tanto mia madre, mia moglie e me”.

Se me ne dimenticassi, la morte di mio fratello non avrebbe più senso. E non avrebbe più senso neanche la mia sofferenza e tutti i problemi che abbiamo avuto io e mia moglie. Se penso al futuro della mia famiglia, mi viene voglia di dimenticare tutto, ma se penso alla morte di mio fratello, l'oblio mi sembra un tradimento. Questa contraddizione mi tormentava.

In quel periodo, un’immagine fissa mi occupava la mente: mio fratello Akio e la mia famiglia venivano spinti e fatti precipitare in un burrone per mano del signor Hasegawa e dei suoi complici. Noi venivamo feriti gravemente e Akio moriva. Dall'alto i giudici, i giornalisti e altra gente ci guardavano incuriositi. Loro stavano in uno spazio aperto e sicuro e dicendoci: “Vi fa male? Poverini!”, cercavano di far cadere giù nel precipizio anche il signor Hasegawa, i suoi compagni e i loro familiari. Anch'io all'inizio volevo che i nostri carnefici e le loro famiglie provassero la stessa cosa che avevamo provato noi, volevo che soffrissero quanto soffrivamo noi. Ma ad un certo punto mi sono accorto che ciò che desideravo davvero era qualcosa di diverso. Ciò che desideravamo noi, io e mia famiglia, era ritornare su, nello spazio aperto e sicuro dove tanta gente viveva in pace. Ma nessuno tra le persone che stavano lassù ci diceva: “Ora veniamo a salvarvi”. Dicevano piuttosto: “Buttiamo anche questi assassini laggiù dove siete voi! Così vi sentirete sollevati”. Lasciando le vittime nel burrone e gettandovi insieme anche i carnefici, loro continuano a vivere in pace come se non fosse successo nulla. Se non ci sforziamo di risalire su con le sole nostre forze, nessuno ci dà una mano. Ma le nostre piaghe restano aperte. Che fatica e che dolore risalire da soli facendo finta che le ferite non ci siano! Eppure, se si resta preda della rabbia, è peggio per noi, perché rischiamo di scivolare ancora più in basso cadendo nell'inferno. [...]



traduzione di Yukari Saito

 a cura del Centro di documentazione “Semi sotto la neve”