Makoto ODA, ICHIGO ICHIE (DeriveApprodi) 小田実「終らない旅」イタリア語訳 刊行
Dico questo in primo luogo perché lo sfondo su cui la vicenda propriamente romanzesca si proietta sono gli eventi del secolo scorso che hanno plasmato la società contemporanea, e sulla loro vivida rappresentazione credo che l’autore domandi il più urgentemente che si concentri la nostra attenzione.
La vicenda si proietta, e non si svolge, perché quegli eventi ci appaiono come rievocazione, attraverso il ricordo personale del protagonista, ma anche attraverso la visione che i diversi personaggi hanno, in tempi più vicini a noi, dei luoghi dove i fatti si svolsero e che ancora ne offrono crude le tracce. Il ricordo personale è quello che il protagonista Tsuyoshi Saito conserva dei bombardamenti di Osaka che a 12 anni vide "dal basso" e non, come gli aviatori o gli spettatori televisivi, "dall'alto": un gran fumo che cancella ogni cosa. Queste due immagini, "dal basso" e "dall'alto", che non hanno quasi nulla in comune, lui è in grado di paragonarle perché ha visto da bambino le foto e i filmati della distruzione di Nanchino, ed evoca il sentimento di quasi indifferenza di allora, per capire la quasi indifferenza degli altri per Osaka (o perfino Hiroshima).
È subito chiaro che il suo non è l'attacco di un giapponese contro chi ha lanciato sul Giappone la prima atomica (a cui Makoto Oda ha dedicato un libro ben noto, Hiroshima, poi ripubblicato come H). Se il primo confronto è tra le due visioni di Nanchino e di Osaka, lo scrittore giapponese implica immediatamente il riconoscimento delle colpe del suo paese. E non si tratta nemmeno di una crociata contro le «guerre ingiuste» e le armi «inaccettabili», siano queste le bombe atomiche o l'agente Orange. Il lettore è condotto a vedere che non esistono guerre giuste come non esistono armi accettabili. «La parte che fa la guerra giusta non può perdere, deve vincere assolutamente perché solo in tal modo la sua guerra verrà effettivamente riconosciuta come giusta. [...] Se la giustizia è dalla parte dell'avversario, allora può fare di noi tutto ciò che vuole, anche distruggerci e massacrarci arbitrariamente? E cosa succede agli esseri umani che ne sono coinvolti? Vengono semplicemente abbandonati a se stessi? [...] Per me, che sono stato a un passo dal diventare una di quelle persone abbandonate al loro destino, tutto questo è intollerabile. [...] La parte che agisce è quella che uccide, la parte che subisce è quella che viene uccisa. Il problema è che la semplice popolazione, pur svolgendo per un certo tempo il ruolo di chi agisce, alla fine si ritroverà dalla parte di chi subisce. Tutto ciò che ho capito dalle mie esperienze di guerra può essere riassunto in questa verità. E basandomi su di essa ribadisco una cosa: [...] se chi fa la guerra ingiusta usa del gas velenoso e fa un massacro con le armi convenzionali, la controparte che combatte la guerra giusta sgancia bombe atomiche e vince con una strage indiscriminata. Ma la loro si può ancora chiamare guerra giusta? Si può dire che la loro vittoria è stata ottenuta con una guerra giusta? [...] Voglio chiarire che non è mia intenzione difendere la guerra che abbiamo fatto. Penso solo, attraverso le esperienze del passato, che non ci sia giustizia nelle guerre. Qualsiasi guerra, dal punto di vista di chi subisce, non è altro che ingiusta. Da questo, arrivare a pensare che ogni guerra, qualunque siano le ragioni che l'hanno scatenata, vada fermata, mi sembra del tutto naturale» (pp. 189-190).
Tsuyoshi ha esattamente l'età di Makoto Oda, il quale ha realmente vissuto a 12 anni il bombardamento di Osaka. Per quanto riguarda il suo pensiero, Tsuyoshi è il portavoce di Oda. Infatti è in questo senso che si è parlato, per questo romanzo, di romanzo autobiografico. Sappiamo che per qualche tempo Oda è riuscito a tenere a bada quel ricordo, ha viaggiato, studiato a Harvard, scritto romanzi acclamati. Poi un giorno il ricordo si è rifiutato di restare da parte, ha ripreso il posto primario che gli spettava, e il celebre romanziere si è trasformato in un instancabile apostolo della pace. Una delle principali scoperte che ci vuole comunicare riguarda il rapporto vittima=aggressore:
«I soldati giapponesi reclutati e spediti al fronte in Cina in origine erano semplici cittadini. Nessuno di loro era diventato soldato di propria iniziativa. In tal senso erano senza dubbio vittime dell'autorità dello Stato. Ma la guerra significa, in ultima analisi, uccidersi a vicenda. Per vincere si ammazzano i nemici. E i nemici erano i cinesi. Quei soldati giapponesi, che a ragione erano povere vittime, dal punto di vista dei cinesi erano abominevoli aggressori che uccidevano, bruciavano e saccheggiavano. Nient'altro. Da questa prospettiva si scopre che quei giapponesi erano diventati aggressori proprio "perché" erano vittime. Per esprimere il concetto in una formula, potremmo dire "vittima=aggressore", con il segno di uguale che collega la vittima e l'aggressore. [...] I miserabili soldati giapponesi della formula vittima=aggressore che in Cina avevano ucciso, bruciato e saccheggiato erano esattamente uguali ai soldati americani di 19.2 anni di media» (pp. 174-75).
I disertori e i pacifisti si sottraggono a questo ingranaggio. Ma i disertori sanno di provenire dalle file di quei soldati, e i pacifisti sanno che in altre circostanze avrebbero potuto essere aspirati in quel vortice, per cui nulla provoca in loro più sdegno degli insulti ai soldati rimpatriati. La condanna della guerra non deve trasformarsi in una condanna delle vittime diventate a un certo punto aggressori.
Oda ammette che, nato pochi anni prima, avrebbe potuto partecipare lui stesso a un suicidio di massa - dedica al gyokusai (suicidio di massa, letteralmente «polverizzazione della gemma») di un gruppo di soldati giapponesi in una sperduta isola del Pacifico un romanzo tradotto in inglese col titolo The breaking jewel (Columbia University Press, 2003) - e la coprotagonista Alice riconsidera, alla luce di un'affermazione simile di Tsuyoshi, il suo giudizio sui kamikaze che fino allora aveva ritenuto folli: «Mentre in genere gli americani pensano che si tratti di cose da malati di mente, [Tsuyoshi] diceva di no, sia il tokko [kamikaze] sia il gyokusai erano azioni realizzate da persone perfettamente lucide. Disse che lui era piccolo, non aveva raggiunto l'età della leva, altrimenti l'avrebbe fatto anche lui. La ragione era semplice e chiara: se la guerra continuava non c'era altra scelta, e quella si presentava come la più ragionevole» (p. 240). Tuttavia è lo steso Tsuyoshi-Oda a dichiarare che quella tecnica determinata e spiegata dalla disperazione si è dimostrata inefficiente, e rimanda alla lezione della storia i giovani palestinesi che nello stesso stato d'animo vi fanno ricorso: «Quando leggo queste cose, penso che stiano facendo esattamente quello che in passato ha fatto il Giappone. Ma né gli attacchi aerei suicidi né il martirio di massa hanno avuto successo alla fine» (p.241). È una conferma che non c'è alternativa al pacifismo, unica soluzione alle tragedie di ogni ordine che la guerra comporta.
Oda, certo, scrive questo libro per disseminare il suo pensiero, per persuadere con l'evidenza della necessità delle conclusioni a cui è giunto. Non che per questo non sia restato il romanziere che era. Infatti Ichigo ichie è un vero romanzo, un romanzo avvincente proprio in quanto «storia» (story), narrato con consumata sapienza, anche nell'uso del flash back, e perfino del suspense.
Il romanzo narra l'amore tra il professore d'inglese Tsuyoshi, che diviene in seguito un piccolo mercante di articoli orientali e occidentali, e Alice, una newyorkese che lo aveva ospitato a Washington in occasione della manifestazione del 15 novembre 1969 contro la guerra in Vietnam. Quando venti anni dopo, a Ho Chi Minh City, «avviene il miracolo» del ritrovarsi - tre mesi prima del 13 ottobre 1990, data della lettera in cui Tsuyoshi descrive il nuovo incontro - il rapporto fiorirà «com'è naturale tra uomo e donna». Lui ha 58 anni, lei 52.
Colpiscono subito la precisione nell'indicare luoghi e date, e l'estrema concisione - lette le prime tre pagine, sappiamo già l'essenziale di vita e morte dei genitori di Kumiko, la figlia del Professore attraverso il filtro delle cui letture ci giunge la maggior parte del racconto, come attraverso il filtro del cui ricordo è confermato il nucleo del pensiero di lui. Eppure, se questa narrazione serrata dura per 360 pagine non è solo a causa delle frequentissime aperture sulla realtà storica e il pensiero politico di Oda-Tsuyoshi. Il tema «romantico» - che è l'incontro amoroso, annunciato e poi vissuto in due tempi - è trattato insieme con estrema discrezione e con lente accurate rappresentazioni di stati d'animo cui si alternano precisi e diretti flash erotici. Si nota che, se l'intensità dei sentimenti è resa col tocco lieve di un maestro del minus dicere, Oda non rifugge da meticolose descrizioni nel processo di evocare le emozioni. Vediamo come suggerisce l'emozione filiale di Kumiko fermandosi per mezza pagina sui caratteri inconfondibili della «piccola macchina da scrivere portatile Hermes Rocket, di fabbricazione svizzera, tanto cara a suo padre. [...] I martelletti si erano notevolmente consumati, e le lettere battute sui fogli sottili erano in più punti bucate e sbavate» (p. 29). Così, il ritegno non lo trattiene dall'usare parole dense di pathos come «destino» e «miracolo» nel rappresentare il secondo incontro tra Tsuyoshi ed Alice, quello che muterà dall'interno il corso della loro vita. Allo stesso modo, all'estrema concretezza, tanto della parte «romanzo» che della parte, per così dire, «documentaria» del libro, corrisponde una rete sottesa di allusioni e presagi, che della realtà coglie, come ogni vera opera d'arte, uno strato «secondo». Pensiamo alla brevissima descrizione del terremoto, che contiene in nuce la visione delle stragi di Osaka e di Song My: «Mentre camminavano dal parcheggio della stazione ai cancelli d'entrata, [Kumiko] aveva sentito di dover parlare del terremoto. Brevemente aveva raccontato che la regione era stata colpita all'alba, in un istante erano morte quasi seimila persone, la città era stata distrutta e ridotta in cenere» (p. 23).
È leggendo le lettere di Tsuyoshi ad Alice e i suoi diari che, otto anni dopo la morte di lui, Kumiko scopre, con assoluta sorpresa, la storia di questo amore. Lettere e diari le vengono spediti da Jeanne, la figlia di Alice. Kumiko e Jeanne diverranno protagoniste della seconda parte del libro. Compiranno insieme ad altri personaggi significativi il viaggio con cui il romanzo si conclude - fino a Hanoi, dove era stato prigioniero il padre di Jeanne, vittima=aggressore della guerra americana contro il Vietnam.
Con questo viaggio il romanzo chiude il suo cerchio perfettamente costruito, e che pure si apre continuamente a riflessioni, perfino a «lezioni», di storia e politica. A Hanoi - all'«Hanoi Hilton», come i giovani prigionieri americani chiamavano scherzosamente il campo - era rimasto vari anni il padre di Jeanne, il pilota che aveva sganciato bombe in quella guerra ingiusta, guerra che certo non era stato lui a volere, che aveva fatto di lui una vittima, e di conseguenza un aggressore, e di conseguenza ancora una vittima, fino al suicidio con cui aveva forse tentato di sottrarsi, dopo vari anni, all'incubo di quella catena. Dell'ingranaggio atroce che è la guerra, Tsuyoshi aveva parlato a più riprese ad Alice - la quale nel '70 a tratti si ritraeva ferita, ma che venti anni dopo «capisce» perfettamente: «Non voglio andare lì dove Norm ha fatto soffrire così tante persone con le bombe che ha sganciato, e dove lui stesso è stato imprigionato soffrendo a sua volta» - aveva spiegato così il suo rifiuto a recarsi a Hanoi. Alla protesta contro quella guerra Alice partecipava nel '69 anche in una sua fedeltà al fidanzato prigioniero, insieme per compassione del suo soffrire e in espiazione per lui aggressore - questo non le era ancora tutto chiaro, era più istintivo che cosciente: coscientemente grata lei era invece già allora per il rifiuto dei pacifisti di accanirsi contro i soldati rimpatriati.
Il viaggio ad Hanoi sarà vissuto dunque dai rappresentanti delle due successive generazioni, le rispettive figlie di Tsuyoshi e di Alice, Kumiko e Jeanne, il fratello di Jeanne, David, e Mika, la giovanissima figlia di Kumiko. Ma a vivere il viaggio assieme a loro saranno anche varie altre persone d'origine diversa: la moglie sudcoreana di David e i due «accompagnatori» vietnamiti. A Kumiko e a Mika si era unito un altro giapponese, un altro «figlio» - in spirito questo - del Professore: Hashimoto. Che sia questo gruppo cosmopolita a visitare prima Ho Chi Minh City e poi Hanoi e a rimandarsi le emozioni, ci induce a sottolineare un tema che non abbiamo ancora sfiorato. Connessa inscindibilmente all'idea di pace, è quella della convivenza di popoli diversi in perfetta parità di diritti. Era questo per Tsuyoshi il test della vera democrazia: «La democrazia è la forma politica che consente e garantisce la coesistenza di valori diversi tra i quali instaura e preserva rapporti paritari, tanto nell'ambito politico che in quello sociale» (p. 26). Una siffatta società è rappresentata dall'America nel suo senso migliore. Non si dimentica la rozza realtà di un'America razzista e nemica dell'«altro», che il crollo delle torri gemelle ha riportato in primo piano: «In America ci sono tanti pregiudizi e tanta discriminazione. Forse non c'è un'altra società così violenta» (p. 25). «Adesso tutti i "piccoli esseri umani" americani [...] sembrano sentirsi impotenti, pensano che ormai non ci sia più niente da fare. Dopo l'11 settembre la democrazia non ha più vigore» (p. 355). L'«America migliore» tuttavia c'è, rappresentata nella sua forma più completa dalla città di New York, a cui Jeanne, come già Alice, è fiera di appartenere: «Credo che al mondo non ci sia un altro paese in cui vivono così tante persone di nazioni e popoli diversi, con i loro modi e le loro tradizioni. Se l'America è questo, non c'è altro posto in cui emerga più che a New York» (p. 25). Per convivere in parità, i popoli devono conservare la propria identità, non lasciarsi sommergere nell'indifferenziata copia del più forte, come aveva proposto la pax romana - perciò Tsuyoshi è fiero del suo accento inglese-giapponese.
I «personaggi minori» meritano a loro volta attenzione. Hashimoto era l'antico ragazzo che aveva ostinatamente perseverato negli anni '60/'70 in quel modesto oscuro monotono lavoro dell'assistenza ai disertori organizzato da Tsuyoshi col suo piccolo gruppo di «persone comuni» - che combattevano la loro «piccola» guerra contro la guerra, aiutando i disertori americani di transito in Giappone. Nei primi anni Duemila, non più giovane, Hashimoto incarna fino in fondo il suo ruolo di «persona comune» nel non ispirato/non ispirante mestiere di agente immobiliare. È diventato però, nella sua modesta fedeltà, un altro portavoce del Professore, accanto ad Alice che nei suoi diari e nei racconti a Jeanne ne aveva rispecchiato il pensiero, e a Kumiko, alla cui mente risalgono i «semi sotto la neve» che Tsuyoshi vi aveva sparso quando lei era bambina. Ognuno di questi portavoce ne rivela con efficacia una sfaccettatura - l'«uomo comune» Hashimoto ne rivela la concretezza, la modestia, la perseveranza: spetta a lui condensare l'essenza di una visione del vivere che è insieme accettazione e speranza: «La vita è ichigo ichie... un'occasione, un incontro. Ci si trova, ci si separa. Ci rivedremo ancora». Prima aveva ribadito: «"Il Professore [...] diceva sempre che guerra e pace vanno considerate mettendosi dalla parte degli inermi". Dalla prospettiva di chi subisce la guerra, è sufficiente che l'etica contempli l'imperativo del "non uccidere", ma chi fa la guerra si giustifica sostenendo: "Per salvare queste persone, devo per forza uccidere quelle" [...] La situazione cambia quando all'imperativo del "non uccidere" si associa quello del "non essere uccisi". Se si persegue un pacifismo assoluto che ripudia la guerra, bisogna andare fino in fondo a tutto questo» (pp. 340-342).
Accanto a questi tre giapponesi, troviamo i due americani figli di Alice e di Norm: Jeanne, che ha il coraggio di portare lucidamente i pensieri fino alla dolorosa conclusione a proposito di suo padre: «Quando [...] sganciava bombe sul Vietnam, era in guerra come membro dell'esercito americano. Non si era mai confrontato con l'insieme della guerra da singolo individuo. [...] Quando è stato catturato, penso che per la prima volta sia passato dalla parte di chi fa la guerra a quella che la subisce» (pp. 342-43). Ma ha sprecato questa occasione perché il suo cuore restava dalla parte di chi uccide. L'altro figlio di Norm, David, che ha scelto di vivere a Ho Chi Minh City, accompagna la sorella e i suoi amici nella visita al Villaggio dell'Amicizia di Hanoi, dove si ha cura di 100 vittime dell'agente Orange, si cerca di renderle autosufficienti. È Jeanne a presentarcelo: «"Mio fratello non è un sognatore. È un comune piccolo essere umano. Le sue possibilità sono limitate» (p. 353). In realtà perseguiva un sogno, con umile ostinazione. Studiava intensamente il vietnamita per farsi capire dalla bambina del Centro con le labbra spaccate e gli occhi sporgenti che aveva fatto conoscere ai visitatori: «Vorrei rivolgermi a lei in un buon vietnamita, provare tante volte quante saranno necessarie, e quando lei inizierà a parlare con me, vorrei chiederle che cosa vedono i suoi occhi, che cosa le appare. Questa è la mia aspirazione» (p. 357).
Infine, le due guide vietnamite - che sono ben più che guide o accompagnatori - Hong e Nguyen. Il Vietnam è in questo libro il modello attuale di uno Stato che segue in qualche modo «la via regale» dell'antica Cina, opposta alla «via egemonica» dell'Occidente a cui si adeguò nel secolo scorso il Giappone. La modestia, l'onestà - ma anche insieme la prudenza - sono i motivi per cui Hong non rivela quasi a nessuno d'essere il nipote di un eroe. Il padre di Nguyen, poi, che è per David figura paterna, sebbene non abbiano una lingua comune per comunicare, tuttavia una frase riesce a farla capire a David e agli altri: «La guerra, lo si capisce quando vi si partecipa, è dolorosa per chiunque» (p. 336). Questa frase non è una conclusione, è solo una premessa: «la cosa bella che mi è capitata in questo viaggio - dice Jeanne - è aver capito che la lotta dei "piccoli esseri umani" [...] è nascosta nella rivoluzione e nella vittoria di questo paese. [...] Un'altra cosa bella è aver effettivamente percepito che i "piccoli esseri umani" di questo paese non si sentono deboli, non sprofondano nell'impotenza» (p. 355).
La lezione fondamentale del Professore è che il ruolo del «piccolo uomo comune» è d'importanza primaria, e non perché di piccoli uomini comuni è fatta la massa che possiede la forza. La sommersione dell'uomo singolo nella massa ne ottunde la ragione, lo trasporta in quel campo della forza, del «noi» (come l'aveva sperimentato Norm prima della prigionia), in cui non c'è pace. Egli deve imparare dai vietnamiti a non dubitare che gli resta un modo di salvarsi quando più sente, isolato, la propria debolezza. «Il Professore - ricorda Hashimoto - mi ripeteva che gli esseri umani senza forza non possono impedire di farsi piegare, ma la cosa essenziale è raddrizzarsi. Penso che sia proprio quello che il Vietnam ha fatto [...] Quando un piccolo paese cerca di realizzare le proprie aspirazioni, ogni volta che viene piegato dalla politica dei grandi paesi si deve raddrizzare» (p. 356). In questo modo umile e perseverante (e «determinato») il «piccolo uomo» persegue la pace giusta, non l'assenza temporanea di guerra che non è pacifismo: «La guerra impedisce a noi persone comuni di vivere in modo onesto. Nel nostro vivere quotidiano non si uccide e non si viene uccisi: la guerra invece ci spinge a farlo [...] Il movimento pacifista non ha bisogno di ragioni complicate: rappresenta il desiderio e l'impegno delle persone comuni che cercano di vivere in modo retto» (pp. 358-359).
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